Quando nel 1974 ci fu il referendum abrogativo della legge sul divorzio, una bella fetta della propaganda per il sì (quindi contraria al riconoscimento del diritto di sciogliere un matrimonio) impostò la battaglia su un argomento che stava dalle parti del ricatto bello e buono. "E i figli?" Chiedevano democristiani, post-fascisti e monarchici, paventando legioni di disadattati cronici vittime della decisione dei genitori di separare le proprie vite. Essendosi probabilmente resi conto di quanto fosse anacronistica e debole una visione della società fondata sullo scudo religioso della grazia di Cristo che si traduce in termini umani per mezzo dei sacramenti accompagnando così il cammino spirituale dei peccatori sulla terra, i cattolici più conservatori dello schieramento italiano tirarono dentro i figli come argomento concreto e sostanziale della loro linea. Perché i figli -un po' come "la vita" quando si parla di aborto o eutanasia- hanno un portato metaforico pervasivo, sono il jolly di qualsiasi argomentazione, l'assegno in bianco da presentare a qualsiasi obiezione. I figli sono i figli, non c'è bisogno d'aggiungere altro. Dopo la benvenuta vittoria dei "no", quello che successe in Italia fu più o meno questo: i figli cresciuti in coppie divorziate sono in un primo tempo cresciuti con i loro problemi e le loro difficoltà. Tuttavia col passare del tempo, tenetevi forte, il tempo tende a passare e la società italiana ha preso le misure della curva di flessione culturale implicata dalle condizioni di vita delle coppie divorziate e ha alleggerito la saccoccia di drammi ed eventuali traumi cascati addosso ai figli delle suddette coppie. La variabile del tempo è sempre fondamentale in questi casi, ma gli alfieri del conservatorismo famigliare sembrano scordarselo continuamente: oggi quelle povere vittime dell'egoismo, quei poveri agnelli dell'insufficiente carità cristiana dei genitori, quegli innocenti frutti di un sacramento successivamente violato sono divenute persone normali, figli normali, genitori normali, compagni di banco, meccanici, panettieri e agenti finanziari: hanno i loro problemi, i loro conflitti, le loro preoccupazioni, le loro soddisfazioni e le loro delusioni. Perché? Perché sono come tutti gli altri.
Quanto ai grandi temi: la società è più libera, le sue istituzioni più laiche, le donne che la costruiscono sono più indipendenti, le scelte che fanno sono più consapevoli. E i tempi legali per ottenere un divorzio sono ancora troppo lunghi.
L'anno scorso ho visto The kids are alright, un bel film con Mark Ruffalo che racconta la storia di una famiglia in cui vivono due signore lesbiche con i loro figli, entrambi nati dalla fecondazione in vitro che ciascuna donna ha sperimentato con il medesimo donatore di sperma. Si tratta di un bel film: quando lo vidi, mi divertì molto tentare d'immaginare i pensieri che affollavano la testa del resto del pubblico. Era una proiezione estiva organizzata presso la biblioteca di un piccolo paese di provincia: non esattamente un tempio del pensiero liberale di larghe vedute.
Io non ho mai avuto particolari opinioni sul tema dell'adozione da parte di coppie gay. Mi sono sempre riconosciuto nella saggezza universale del binomio "Perché no?", riscontrando di volta in volta una certa debolezza ideologica delle posizioni espostemi. Ho sempre avuto la sensazione, insomma, che la risposta alla mia domanda circa le ragioni per negare questo diritto alle coppie omosessuali fosse: "Perché di no." Che dal punto di vista politico non mi sembra una considerazione centrale.
Ieri ho letto quest'articolo su Slate. Consiglio di leggerlo a chiunque voglia avere elementi concreti e circostanziati sul tema delle adozioni da parte di coppie omosessuali. Dopo averlo fatto, consiglio di leggere questo post, in cui sono evidenziate le faziosità e le disonestà intellettuali con cui è stata strumentalizzata la ricerca di cui si parla nell'articolo.