Una delle cose migliori di avere un fratello maggiore di qualche anno è la possibilità di entrare facilmente in relazione con il mondo dei più grandi e conoscerne e possederne pezzi consistenti, di qualsiasi tipo. Nella fattispecie, a livello di consumi culturali con me ha funzionato particolarmente fra la fine delle elementari e il primo anno di liceo con le canzoni degli Articolo 31 e di alcuni gruppi metal, con certi film dell'orrore, con i primi romanzi di Enrico Brizzi, con il collezionismo delle carte di Magic e con gli albi a pubblicazione mensile di Dylan Dog.
Dylan Dog era una cosa incredibile da leggere, dai 10 ai 18 anni. C'era dentro un eroe colto e divertente, romantico ma non melenso, lastricato di buone intenzioni e afflitto da una quantità di fobie infantili. C'erano personaggi secondari appassionanti, mostri e mostriciattoli molto più concreti e tremendi e perturbanti del messaggio complessivo (ah!) secondo cui in fin dei conti il mostro vero è l'uomo stesso, c'erano Londra e altri pezzi del Regno Unito. E poi c'erano le storie: scritte da un sacco di sceneggiatori diversi ma tutte con i piedi ben piantati nella cultura fumettara da un lato e nell'immaginazione del lettore dall'altro. Gli elementi del quest si scioglievano un pezzo alla volta, la ridondanza del lato sovrannaturale era efficacemente controbilanciata dallo scetticismo del protagonista, i colpi di scena cadevano pennellati e quasi mai forzati. Funzionava un sacco.
Qualche tempo fa, chi si ricorda dove, ho letto un'intervista a uno sceneggiatore di Dylan Dog che spiegava un cambiamento secondo lui determinante della concezione dell'albo. Lui cercava di non schierarsi, rispetto a questa roba, ma secondo me la considerava un passo indietro giustificato principalmente da una trasformazione dei gusti dei lettori (e dai necessari balzelli anagrafici correlati). Si tratta dell'idea dell'ottovolante, cioè di costruire l'impianto narrativo a partire dallo scopo prioritario di disorientare il lettore con ribaltoni costanti, misteri che si accavallano senza essere dipanati, confusione del tempo della storia, scatole cinesi che stanno dentro un pendolo di Foucault che sta dentro gli ingranaggi di un orologio che sta nella tasca di un personaggio che in tutta la trama ha il solo compito di tossire in secondo piano, in dissolvenza. Il problema di quest'accumulazione salta fuori nel finale, al confronto col quale c'è troppa roba da tenere in mano contemporaneamente: invece di confluire tutti nelle ultime pagine, molti elementi introdotti in precedenza sono abbandonati, trascurati, affrontati con soluzioni traballanti. L'ottovolante: parti, fai centosei giri della morte, e scendi a un metro da dove sei partito. Il tema non è relativo solo i fumetti o Dylan Dog, naturalmente. Basti pensare a film come Vanilla Sky, o, ancora, alle capriole di Lost e compagnia bella.
Comunque: a un certo punto, Dylan Dog è diventato così. Complessissimo e arrovellato nello sviluppo, aggrovigliato e deludente nei finali. E se mi tiri scemo scemissimo scemerrimo ma il finale non sta in piedi, beh, preferisco Agatha Christie.
E a proposito di Agatha Christie, sto vedendo una serie Tv che è la testimonianza più efficace di quella modalità classica ed elegante di mettere in piedi un racconto avvincente e tirascemo, ma sobrio e ordinato. Si chiama The Killing. Quello che mi piace di The Killing è il suo essere esattamente agli antipodi dell'ottovolante. The Killing se ne sta. Essenziale e con un suo orgoglio manierista, racconta la storia di un'indagine relativa all'omicidio di una diciassettenne. Rende conto delle implicazioni politiche, del dolore della famiglia, del tema del terrorismo islamico, dell'intersezione fra storie collettive e questioni private e di qualsiasi sbattere d'ali di qualsiasi farfalla. Ma prende convinte distanze dall'incasinamento programmatico, dalle istanze di decostruzione narrativa che vanno tanto per la maggiore in un sacco di serie contemporanee. Con il suo caro vecchio rapporto di causa ed effetto, va da A a B, da B a C e così via. In The Killing capisci tutto, non ti senti mai perculato dagli autori e ti affezioni all'atmosfera piovosa e opaca di Seattle. Cosa di cui erano in grado solo Nirvana e Pearl Jam nei giorni migliori.
Dylan Dog era una cosa incredibile da leggere, dai 10 ai 18 anni. C'era dentro un eroe colto e divertente, romantico ma non melenso, lastricato di buone intenzioni e afflitto da una quantità di fobie infantili. C'erano personaggi secondari appassionanti, mostri e mostriciattoli molto più concreti e tremendi e perturbanti del messaggio complessivo (ah!) secondo cui in fin dei conti il mostro vero è l'uomo stesso, c'erano Londra e altri pezzi del Regno Unito. E poi c'erano le storie: scritte da un sacco di sceneggiatori diversi ma tutte con i piedi ben piantati nella cultura fumettara da un lato e nell'immaginazione del lettore dall'altro. Gli elementi del quest si scioglievano un pezzo alla volta, la ridondanza del lato sovrannaturale era efficacemente controbilanciata dallo scetticismo del protagonista, i colpi di scena cadevano pennellati e quasi mai forzati. Funzionava un sacco.
Qualche tempo fa, chi si ricorda dove, ho letto un'intervista a uno sceneggiatore di Dylan Dog che spiegava un cambiamento secondo lui determinante della concezione dell'albo. Lui cercava di non schierarsi, rispetto a questa roba, ma secondo me la considerava un passo indietro giustificato principalmente da una trasformazione dei gusti dei lettori (e dai necessari balzelli anagrafici correlati). Si tratta dell'idea dell'ottovolante, cioè di costruire l'impianto narrativo a partire dallo scopo prioritario di disorientare il lettore con ribaltoni costanti, misteri che si accavallano senza essere dipanati, confusione del tempo della storia, scatole cinesi che stanno dentro un pendolo di Foucault che sta dentro gli ingranaggi di un orologio che sta nella tasca di un personaggio che in tutta la trama ha il solo compito di tossire in secondo piano, in dissolvenza. Il problema di quest'accumulazione salta fuori nel finale, al confronto col quale c'è troppa roba da tenere in mano contemporaneamente: invece di confluire tutti nelle ultime pagine, molti elementi introdotti in precedenza sono abbandonati, trascurati, affrontati con soluzioni traballanti. L'ottovolante: parti, fai centosei giri della morte, e scendi a un metro da dove sei partito. Il tema non è relativo solo i fumetti o Dylan Dog, naturalmente. Basti pensare a film come Vanilla Sky, o, ancora, alle capriole di Lost e compagnia bella.
Comunque: a un certo punto, Dylan Dog è diventato così. Complessissimo e arrovellato nello sviluppo, aggrovigliato e deludente nei finali. E se mi tiri scemo scemissimo scemerrimo ma il finale non sta in piedi, beh, preferisco Agatha Christie.
E a proposito di Agatha Christie, sto vedendo una serie Tv che è la testimonianza più efficace di quella modalità classica ed elegante di mettere in piedi un racconto avvincente e tirascemo, ma sobrio e ordinato. Si chiama The Killing. Quello che mi piace di The Killing è il suo essere esattamente agli antipodi dell'ottovolante. The Killing se ne sta. Essenziale e con un suo orgoglio manierista, racconta la storia di un'indagine relativa all'omicidio di una diciassettenne. Rende conto delle implicazioni politiche, del dolore della famiglia, del tema del terrorismo islamico, dell'intersezione fra storie collettive e questioni private e di qualsiasi sbattere d'ali di qualsiasi farfalla. Ma prende convinte distanze dall'incasinamento programmatico, dalle istanze di decostruzione narrativa che vanno tanto per la maggiore in un sacco di serie contemporanee. Con il suo caro vecchio rapporto di causa ed effetto, va da A a B, da B a C e così via. In The Killing capisci tutto, non ti senti mai perculato dagli autori e ti affezioni all'atmosfera piovosa e opaca di Seattle. Cosa di cui erano in grado solo Nirvana e Pearl Jam nei giorni migliori.
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