Sam Peckinpah è stato un capacissimo regista che si faceva i cazzi suoi. Viene facile definirlo incazzato, rock'n'roll, trasgressivo. Lui però si faceva i cazzi suoi, e nel frattempo ispirava l'orientamento cinematografico di gente come Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Il suo capolavoro s'intitola Il mucchio selvaggio, e racconta in chiave western la storia disperata e violentissima di una storia di disperazione e violenza. Il film è poderoso, insomma, e questo lo sanno pure i comodini. Il culto di cui ha goduto e la risonanza che ha avuto hanno fatto inoltre una quantità di giri nelle teste delle generazioni successive, fino a diventare anche il nome di una rivista italiana.
Il mucchio selvaggio è una rivista che esiste da un botto di anni. Parla di musica e di cinema, di arte e di politica: si rivolge a una nicchia di mercato che preferisce cercarsi consumi culturali indipendenti, parla prevalentemente a un pubblico molto appassionato di roba underground, ancora abituata (pensa un po' che gente che c'è in giro) a comprare dischi e ad andare al cinema. Quando frequentavo i corsi universitari, andavo spesso alla Mondadori in Duomo a leggerlo a scrocco. Grazie alle sbarcate di recensioni, ho scoperto gente come Sufjan Stevens e Ben Folds, i Mars Volta e Alexis Murdoch. Vogliamo dire che è una rivista di sinistra fatta a forma delle riviste di sinistra? E diciamolo, che del resto i neGri hanno tutti quanti il ritmo nel sangue.
Da qualche giorno, al Mucchio, in risposta alla crisi di cui soffre la rivista da quando sono molto diminuiti i contributi statali all'editoria, hanno messo in piedi una campagna abbonamenti. Ne servono duemila prima della fine del mese, dicono, altrimenti puppa. Stanno a novecento, ora, e chissà se ce la faranno. Il nuovo direttore ha scritto un editoriale pubblicato anche sull'homepage del sito. A un certo punto, dice una cosa su cui vale la pena riflettere:
Il motivo peggiore per cui una rivista chiude - ed è quello che sta accadendo al Mucchio - è quando non ci sono più i soldi per farla. I tagli retroattivi del 15 percento al fondo per l’editoria e quelli del 50 percento decisi per l’anno a venire ci fanno temere il peggio. Dobbiamo muoverci per farne a meno e dobbiamo farlo subito.
Il tema dei contributi statali è una roba vecchia. Sappiamo che praticamente qualsiasi pubblicazione della Repubblica ne fruisce (fra i più rilevanti, solo Il Fatto ne fa a meno) e anzi che senza quei gruzzoli molte delle pubblicazioni si troverebbero costrette a fare quello che sta facendo il Mucchio. Non sono felice che Il Mucchio chiuda, naturalmente. Però, per fare economia da bar, se chiude è perché non ci sono lettori e se non ci sono lettori è perché la competizione di altre riviste (tipo Rolling Stone e XL fra le più grandi, tipo Blow Up e Rumore fra quelle più vicine al Mucchio) è vincente sul mercato. Non si tratta di un disastro o di uno scandalo, come sostengono molti affezionati alla rivista su Facebook. Ed è un impoverimento dell'offerta solo da un punto di vista molto limitato. I limiti li pone il mercato, come al solito. I vecchi collaboratori e redattori del Mucchio, quelli più bravi e competenti, andranno a fare altro, a scrivere in altri giornali, magari più solidi sotto il profilo del bilancio e più diffusi dal punto di vista quantitativo. Potranno essere letti da più persone, forse, o forse no: il problema è che Il Mucchio può pure essere il giornale più figo del mondo, ma non esiste senza lettori. Un po' come questo blog, del resto.
1 commento:
Ti consiglio di vedere, se già non l'hai fatto, oltre ovviamente a "Pat Garrett & Billy the Kid",
"Voglio la testa di Garcia".
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