Stavo guardando un documentario su Warren Buffett sul sito dei soliti benefattori. Warren Buffett è uno degli uomini più ricchi del mondo. E' ricco, ricchissimo, tanto di più: si stima che il suo patrimonio personale superi i 50 miliardi di dollari. Potenzialmente, potrebbe anche passare intere giornate spaccando televisori con lo schermo al plasma sulle ginocchia. Ma tipo otto ore al giorno. Hai presente la noia.
Il documentario è molto interessante da questo punto di vista, perché racconta che Warren Buffett è un tipo molto poco eccentrico e stravagante, rispetto agli standard che uno si aspetta dall'enormità del suo conto in banca. Ha una casa bellissima, grandissima ma normalmente bellissima e grandissima. Le sue auto sono bellissime e grandissime, sempre in modo normale. A un certo punto, vuoi la generosità encomiabile, vuoi la demenza senile, vuoi l'ambizione di non morire venendo considerato un riccastro più o meno stronzo, Buffett ha deciso di mollare gradualmente il 99% del suo patrimonio alla fondazione filantropica di Bill Gates e moglie. C'è dentro un sacco di roba nel documentario: si scopre anche che Warren Buffett va matto per il cibo spazzatura. Lo stereotipo prevede che lui sorseggi Dalmore 62 (whisky più costoso del mondo: 125.000 sterline la bottiglia) fumando prelibatezze cubane? Ecco, lui di sera si tira una lattina di coca-cola, invece: peraltro possiede un bel pezzo (il 7%, per dire) della multinazionale in questione. E probabilmente la cifra vera della sua eccentricità è l'assenza dell'eccentricità, la sua stravaganza profonda è quella di essere un quindicenne che vive nel corpo di un ottantenne inopinatamente strapieno di soldi. Non lo so. Però te lo vedi. Te lo vedi che comincia da ragazzino con le scarpe vecchie, i capelli sporchi e la testa piena di sogni: gira per le case del quartiere vendendo robetta, si smazza i week-end nel negozio di papà, accumula i pochi dollari con sentimenti dritti all'incrocio fra orgoglio e pertinacia. Da lì al primo investimento finanziario (11 anni, in società con la sorella), dal primo investimento agli studi universitari (con tanti saluti alla retorica marcia italiana sintetizzabile con lo slogan tremendo Dà retta a un pirla. Questo ha preso un master in economia alla Columbia, e fine) e dagli studi universitari a una carriera che ci vorrebbero un paio di Kubrick, per raccontarla efficacemente.
Il documentario è molto interessante da questo punto di vista, perché racconta che Warren Buffett è un tipo molto poco eccentrico e stravagante, rispetto agli standard che uno si aspetta dall'enormità del suo conto in banca. Ha una casa bellissima, grandissima ma normalmente bellissima e grandissima. Le sue auto sono bellissime e grandissime, sempre in modo normale. A un certo punto, vuoi la generosità encomiabile, vuoi la demenza senile, vuoi l'ambizione di non morire venendo considerato un riccastro più o meno stronzo, Buffett ha deciso di mollare gradualmente il 99% del suo patrimonio alla fondazione filantropica di Bill Gates e moglie. C'è dentro un sacco di roba nel documentario: si scopre anche che Warren Buffett va matto per il cibo spazzatura. Lo stereotipo prevede che lui sorseggi Dalmore 62 (whisky più costoso del mondo: 125.000 sterline la bottiglia) fumando prelibatezze cubane? Ecco, lui di sera si tira una lattina di coca-cola, invece: peraltro possiede un bel pezzo (il 7%, per dire) della multinazionale in questione. E probabilmente la cifra vera della sua eccentricità è l'assenza dell'eccentricità, la sua stravaganza profonda è quella di essere un quindicenne che vive nel corpo di un ottantenne inopinatamente strapieno di soldi. Non lo so. Però te lo vedi. Te lo vedi che comincia da ragazzino con le scarpe vecchie, i capelli sporchi e la testa piena di sogni: gira per le case del quartiere vendendo robetta, si smazza i week-end nel negozio di papà, accumula i pochi dollari con sentimenti dritti all'incrocio fra orgoglio e pertinacia. Da lì al primo investimento finanziario (11 anni, in società con la sorella), dal primo investimento agli studi universitari (con tanti saluti alla retorica marcia italiana sintetizzabile con lo slogan tremendo Dà retta a un pirla. Questo ha preso un master in economia alla Columbia, e fine) e dagli studi universitari a una carriera che ci vorrebbero un paio di Kubrick, per raccontarla efficacemente.
Ma come succede spesso, il motivo per cui ho scritto questo post è molto collaterale all'argomento principale. C'è che ho scoperto questo, grazie al documentario. Lo spot natalizio anni '80 della coca, quello coi ragazzi che vorrebbero cantare insieme a me con la candela in mano, quel monumento promozionale della nostalgia precotta e ruffiana che i miei coetanei si ricordano tutti molto bene, non è originalmente italiano. Io pensavo di sì. E' una roba rivisitata da uno spot simile messo su nel 1971 dai fratelloni americani, invece. In Italia, è stata trasmessa dal 1983 al 1990. Il che la dice lunga sul ritardo di protagonismo nella modernità di cui soffriamo con la terra dei liberi e dei coraggiosi.
2 commenti:
Non hai menzionato il fatto che porta i nipotini al parco. Anche quello è notevole :)
Vero, molto. Io fossi in lui pagherei qualcuno per pagare qualcuno per portarceli al posto mio.
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