Sabato sera mi è capitato di discutere con un amico di un po' di cose diverse ma tutte relative a temi complessi, giganteschi, spigolosi. Stavamo condividendo qualche parere sulle scarse e panoramiche letture di studi antropologici fatte da entrambi, quando a un certo punto gli ho detto una cosa come: "Sono cose molto affascinanti, ma penso che ci sia un po' troppo relativismo culturale di sfondo." La mia affermazione è stata poi saggiamente corretta da un'amichetta che mi ha detto qualcosa come: "Sì, però il compito degli antropologi è osservare e studiare, non valutare." Era convinta di aver ragione e me l'ha dimostrato, convincendomi: ma non diteglielo, che altrimenti si arrabbia.
Ma insomma, da quella mia frase si è scatenata una serie di scambi di idee poste in contrapposizione molto frontale. E dato che mi sono accorto di pensare cose di cui non avevo una vera consapevolezza strutturata -mi succede spesso nelle discussioni: è una delle cose più belle che ci sia- provo a ritirare le fila del discorso. Perché le parole sono importanti, ma la rielaborazione di esse non è da meno.
Ma insomma, da quella mia frase si è scatenata una serie di scambi di idee poste in contrapposizione molto frontale. E dato che mi sono accorto di pensare cose di cui non avevo una vera consapevolezza strutturata -mi succede spesso nelle discussioni: è una delle cose più belle che ci sia- provo a ritirare le fila del discorso. Perché le parole sono importanti, ma la rielaborazione di esse non è da meno.
Tanto per cominciare, buona parte dei miei criteri orientativi rispetto alle cose del mondo è imbevuta di illuminismo. Io vado matto per l'Illuminismo. E visto che "l'Illuminismo" non esiste, ma esistono invece diverse correnti interne a un movimento a sua volta dinamico e articolato, esplicito subito qualche declinazione in più: parlo dell'illuminismo ateo, riformista, repubblicano e democratico, razionalista, egualitario, cosmopolita, umanitario. Io riconosco un sacco di cose che credo buone e giuste in quest'ambito della storia del pensiero umano, e ritengo che soddisfino bisogni universali. Dite che mi sbaglio? Provate a convincermi, ve ne sarò molto grato.
In conseguenza logica delle mie idee, io penso che esistano diritti naturali e inalienabili che devono essere riconosciuti a qualsiasi essere umano, sempre e ovunque, in quanto essere umano. Parlo della libertà di pensiero e di parola e di stampa, della libertà di emancipazione dall'ignoranza, della libertà dalla tirannia e dalla schiavitù e dal fanatismo in qualsiasi sua forma. E mica è facile, mettere in piedi un mondo fatto così. Non c'è nulla di più difficile, invece. Ma si fa dove si può, dove si riesce, dove si deve, un pezzo alla volta. E si fa perché è giusto, perché non esiste soluzione razionale e argomentata che possa giustificare un'offesa a diritti e libertà in ragione di un contesto nazionale e/o culturale. Un uomo che picchia la moglie commette la stessa offesa ai diritti umani sia che la picchi al 100 Upper Side di Manhattan sia che la picchi in un sobborgo di Shanghai o in una baraccopoli ugandese. Si può contestualizzare, naturalmente, si può e si deve esaminare ogni singola circostanza, analizzarla sotto molteplici punti di vista con un procedimento logico e fondato su evidenze empiriche. Ma dal punto di vista etico non si può definire più o meno grave una violazione dei diritti umani in ragione di un dato culturale. Una violazione è una violazione, un diritto è un diritto e una vita vale una vita: tutti i giorni, in tutte le parti del mondo. L'argomento che poi mi fa imbestialire -paradossalmente cavalcato sia da interlocutori che si dichiarano "di sinistra" o "di sinistra radicale" che da conservatori retrogradi ributtanti come Daniala Santanché e Mario Borghezio- è quello appunto relativista, soprattutto nel momento in cui afferma che qualsiasi costume e comportamento è giustificato e accettabile perché inserito in un quadro culturale specifico, che, in quanto tale, ha una sua valenza imprescindibile. Il principio è benintenzionato, e può anche suonare come una cosa equilibrata, egualitaria e open-minded. Ma ha implicazioni invece discutibili, se non violente e brutali. L'idea che qualsiasi cultura abbia valore in quanto cultura non fa i conti con il problema dei diritti e delle libertà, appunto. C'è una differenza sostanziale fra pluralismo e relativismo culturale, da questo punto di vista: accettare più di un'idea e più di uno stile di vita e più di un punto di vista è un'inclinazione ovviamente benvenuta, ma non può essere messa sullo stesso piano -in fin dei conti dogmatico- di accettare qualsiasi idea, stile di vita e punto di vista.
E a questo punto non può che emergere la citazione della pratica dell'infibulazione. Come la mettiamo, con l'infibulazione? La accogliamo come un costume culturale e di conseguenza la accettiamo perché siamo tanto rispettosi delle culture diverse dalle nostre? E se qualsiasi cultura è meritevole di rispetto, in che modo traduciamo questo principio a livello legislativo? Chi siamo noi per eccetera eccetera? E nel frattempo siamo in pace col fatto che milioni di donne finiscano vittima di una violazione crudelissima dei loro diritti personali?
C'è un repertorio di affermazioni quali "rispettare tutte le culture" e "rispettare tutte le idee" che mentre dal punto di vista linguistico hanno una loro efficacia e segnalano una quantità di intenzioni tolleranti, dal punto di vista pratico si annettono a conseguenze rovinose e drammatiche. Da quando abbiamo confuso il rispetto della persona con il rispetto delle sue idee? Per quale motivo dovremmo rispettare le idee di una persona -o di un costume culturale- che ritiene giusto e necessario mutilare l'apparato genitale di una donna con la pretesa folle e agghiacciante di preservarne la purezza? L'infibulazione è un esempio che mette tutti d'accordo: ma se ne possono fare a decine, e diversi fra loro. Dal diritto allo studio (Sì, le bambine indiane non vengono a scuola. Però cosa vuoi dire ai genitori, è la loro cultura) al cannibalismo, dalla lapidazione delle adultere (Lo fanno per motivi religiosi, chi siamo noi per?) allo stupro in famiglia.
Ammettiamo e concediamo che questi e altri costumi barbarici facciano parte "della loro cultura": per quale motivo dovremmo considerare il fenomeno come una scusante e non come un'aggravante? Per quale motivo non dovremmo preoccuparci del fatto che certune pratiche culturali sono irrispettose dei diritti umani e delle libertà personali? Per quale motivo abbiamo a cuore diritti che in Italia coltiviamo e pratichiamo e difendiamo quotidianamente ma che al tempo stesso giudichiamo incompatibili o inapplicabili o estranei a tradizioni e "culture" distanti dalle nostre? Condanniamo Emilio perché dà un cazzotto a Giuliana, e giustifichiamo Ahmed perché lo dà a Nisrita? E in che modo questo metro doppio non fa di noi persone malevole, superficiali o addirittura razziste?
A questo punto si potrebbe aprire la pagina dell'interventismo e della neutralità. Come ci si comporta quando in un Paese sovrano si verificano violazioni gravi dei diritti umani come pulizie etniche, persecuzioni o massacri di civili? Durante il gennaio dell'anno scorso, Gheddafi tirava bombe in testa a sudditi che protestavano contro il suo regime autoritario e repressivo, minacciando di farne carne da macello per mezzo dell'esercito: che si fa? Se siamo d'accordo nel qualificare le decisioni di Gheddafi come ingiustizie, che facciamo? Stiamo a guardare, appellandoci alla neutralità, perché "Chi siamo noi?" e rispettiamo un principio politologico di derivazione ottocentesca come quello di non ingerenza dell'altrui sovranità nazionale? Oppure ci facciamo carico della tutela di principi di libertà e diritti umani -quello di vivere, tipo- intervenendo -anche con la forza: anche con la forza militare- per arginare e raddrizzare situazioni in cui si configura il rischio di emergenze umanitarie?
Tema un'altra volta articolato e controverso. Intanto me la cavo citando le parole di uno che ammiro parecchio, che sa il fatto suo e che di mestiere fa il Presidente degli Stati Uniti:
Tema un'altra volta articolato e controverso. Intanto me la cavo citando le parole di uno che ammiro parecchio, che sa il fatto suo e che di mestiere fa il Presidente degli Stati Uniti:
For make no mistake: Evil does exist in the world. A nonviolent movement could not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot convince Al Qaeda’s leaders to lay down their arms. To say that force is sometimes necessary is not a call to cynicism — it is a recognition of history, the imperfections of man, and the limits of reason.”
Ps: il motivo per cui vado matto per gli illuministi si condensa nelle ultime tre parole di Obama. Niente che si sia inventato lui, è una cosa che l'umanità ha imparato da Immanuel Kant: mettiamo al centro della nostra visione del mondo e delle nostre vite l'esercizio della ragione, ne facciamo un fondamento della nostra modalità di convivenza, dei nostri procedimenti di conoscenza e di progresso scientifico ma al tempo stesso, esercitandola, riconosciamo che ha dei limiti. Siamo proprio razionali.
18 commenti:
Secondo me la tua e' una visione etnocentrista, un po' mi preoccupa quando dici di andare 'matto' per l'illuminismo, probabilmente l'ossimoro e' voluto pero' lo ripeti piu' volte... Consentimi di semplificare dicendo che la 'cultura' in un determinato luogo e tempo e' quanto viene elaborato al di la' della conoscenza delle cose, della natura. In tal senso la scienza non sarebbe 'culturale', la religione si'. Comunque, ogni elaborazione cosi' concepita dipende dal proprio 'sistema di riferimento'. Tale elaborazione puo' essere nobilitante – sino ad una rottura con la natura stessa che espone talvolta ad una perdita di una parte importante di se stessi – o commercializzabile come usano gli americani. Tuttavia il giudizio sul prodotto – un'opera d'arte - che ne deriva dipendera' dal momento e dal luogo nel quale si situa, dal grado di considerazione piu' una variabile aleatoria che puo' cambiare di segno come conseguenza del valore aggiunto. Questo spiega come un sasso utile in un cantiere puo' essere altrettanto utile in un museo, in quanto risponde (il sasso) a pressanti questioni contemporanee e colma quel vuoto sorto dal distacco terreno e materiale, quando insomma conoscere la chimica del pomodoro non basta piu'.
Il cerchio pero' cosi' si chiude. Se invece uno e' meno sensibile, diciamo piu' interventista, ebbene, che intervenga, per fare seguire fatti a parole.
Per il resto, attenzione alle sbandate intellettuali: l'interesse consiste, per quanto possibile, di porre a confronto le suddette elaborazioni, non giudicare l'una con il metro dell'altra.
Ho evidenziato nel finale il motivo per cui "vado matto": ed è proprio l'individuazione dei limiti di quello stesso metro, è la dotazione di anticorpi razionali che impediscono derive fanatiche, è l'intenzione di reprimere il rischio di andare -veramente- matti per qualcosa, anche della ragione stessa.
E per quel poco che so dell'etnocentrismo, io non giudico culture "altre" con il metro della "nostra". Anzi, non sono per niente convinto che esista una cultura "altra" e una cultura "nostra": essendo prodotti di pensiero e azioni dell'uomo, le culture mutano e si trasformano e si evolvono. La "nostra cultura" nel XII secolo non era la stessa di quella che è oggi. E la "cultura cinese" non è oggi quella che sarà fra 500 anni. Quello che c'è di naturale -quindi di non culturale- è l'esistenza di diritti e libertà.
Semplifico molto con un esempio.
Penso che sia una grande cosa poter esprimere la propria opinione in libertà, e siccome penso che sia una grande cosa, vorrei che qualsiasi essere umano ne abbia facoltà. Se ci sono posti nel mondo in cui alcune persone ritengono sbagliato o inutile riconoscere questa libertà ad altre persone per "ragioni" culturali, non vedo perché dovrei considerare il dato come un'attenuante e non come un'aggravante.
Scusa, dove sta scritto che il diritto e' naturale? Visto che ami l'illuminismo hai mai letto De Sade? Naturalmente, convengo con il tuo esempio, ma una formula ( alla quale tengo moltissimissimo !) tipo 'non sono d'accordo con te, ma faro' quanto mi sara' possibile affinche' tu possa esprimerti' e' ovunque applicabile? Il punto Giorgio e' che l'unica costante rimasta e' la velocita' della luce, e anch'essa ultimamente non pare stia molto bene...
Tuttavia resto per l'azione, per questo ho letto con piacere Pound, d'altra parte ho adorato l'anticnformismo di Celine che avverto piu' di sinistra di Sartre ad esempio, non so, 'voyage au bout de la nuit' e' straordinario, anarchico, e la sinstra che fa? lo ritiene un autore di destra.. per inciso passo tutte le mattine nei pressi della casa nella quale abito'.
Buona notte caro Giorgio, e' sempre un piacere leggerti.
Non sta scritto da nessuna parte, ma non perdiamoci in sottigliezze linguistiche. Non si chiama naturale perché qualcuno pensa che derivi dalla natura. Si chiama naturale perché muove dal presupposto teorico secondo cui, così come esiste un ordine naturale delle cose misurabile attraverso il metodo scientifico, ne esiste uno naturale dei rapporti umani altrettanto indagabile dal medesimo metodo, dal cui esercizio è possibile individuare principi normativi equi e validi universalmente. Ovviamente siamo su un piano teorico, ma io mi rifiuto di valutarli come "culturali" o "occidentali", quei principi. Appartengono all'umanità. E non ho alcun motivo razionale di accettare che quei diritti siano riconosciuti a me solo perché sono nato in Italia nel 1983 e che non siano riconosciuti a Nisrita -ormai è l'esempio- solo perché è nata in Siria nel 1983. Io vorrei che Nisrita goda dei miei stessi diritti per il più logico dei motivi: se li merita tanto quanto me. E non parlo di un livello di diritto positivo specifico inserito in un quadro nazionale: non pretendo certo di uniformare costituzioni e codici civili e penali di tutti i Paesi del mondo. Parlo di principi fondamentali, di concetti fondanti. Sono quelli esplicitati nella dichiarazione d'indipendenza americana, in fin dei conti, o quelli sanciti nella parte iniziale della "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" dei giacobini:
Art. 1. Lo scopo della società è la felicità comune. - Il Governo è istituito per garantire all'uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili.
Art. 2. Questi diritti sono l'uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà.
Art. 3. Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla legge.
Per questo motivo penso che ci siano "eccessi di culture" che sfociano in un relativismo tanto eccessivo da normalizzare e giustificare soprusi e violenze. Che c'è di male a rivendicare che ogni persona sia rispettata nel godimento dei suoi diritti di uguaglianza, libertà, sicurezza e proprietà? E di conseguenza, che c'è di sbagliato nel mancare di rispetto a idee, comportamenti e costumi culturali che violano quei pochi diritti fondamentali?
Dimenticavo: grazie.
Il tuo rifiuto mi preoccupa, ammetterai tra l'altro che non e' del tutto razionale.
Ti invito a pensarci un po' su. Io condivido quanto dici ma secondo me non puoi applicare lo stesso paradigma in ogni punto della terra. Per questo concludi con una domanda 'da etnocentrista' (scusa ma si dice cosi').
Per me l'illuminismo e': usa la testa e e evita l'omelia, religiosa o marxista che sia.
Ti rendo tra l'altro noto che sull' "ordine naturale" sei rimasto al secolo scorso.
Oltretutto, l'articolo 2 che citi secondo me fa ridere. Ok uguaglianza e liberta' , la sicurezza non mi indispone, ma mi dici cosa ci azzecca la proprieta'?? Io non mi sentirei di esportare una cosa cosi', almeno per non rischiare il ridicolo che Herzog ha ben espresso in alcuni suoi films.
Partiamo dal fatto che condividi e che però pensi che non si possa applicare lo stesso paradigma ovunque. Perché pensi che non si possa? Non è una domanda retorica o polemica: voglio davvero sapere cosa motiva la tua posizione.
Io, sottolineo il tenore utopico di quello che sto per scrivere, non penso che si possa, penso che si debba: penso che il migliore dei mondi possibili sia un mondo in cui -detta molto in soldoni- chiunque sia libero, autonomo nelle sue scelte, uguale agli altri, al sicuro da minacce e pericoli e libero di possedere beni. E penso che qualsiasi ordinamento giuridico positivo e storicizzato debba ispirarsi a questi principi, perché dal punto di vista logico-deduttivo sono quelli che più adeguatamente e completamente garantiscono a ogni individuo la ricerca della felicità.
Non c'è niente di più difficile della costruzione di un mondo fatto in questo modo, lo so bene, ma questo non significa che siccome il lavoro è troppo complesso allora non valga la pena farlo. E negli ultimi 2 secoli diversi mattoni sono stati accumulati in questo senso.
E attenzione alle scorciatoie linguistiche: non si tratta di esportare la proprietà, si tratta di esportare il diritto a essere titolari di libertà, uguaglianza, sicurezza e proprietà. Uno poi può anche rifiutarlo, quel diritto, cavoli suoi: l'importante è che questo suo rifiuto non implichi la violazione del diritto del suo prossimo -che invece aspira al riconoscimento di quel diritto- a esserne titolare: più nel concreto, che non implichi la sofferenza di esseri umani uguali a me.
Ho un'altra domanda: a cosa ti riferisci quando dici che sull'ordine naturale sono rimasto al secolo scorso? Posto che io usavo l'espressione senza particolari pretese tecniche dal punto di vista scientifico, cosa intendi? Ti riferisci al principio d'indeterminazione e alle rivoluzioni della fisica 900esca che hanno rivisitato la meccanica classica? Scusa, eh, ma io sono appassionatamente curioso, come diceva quello.
Parto dalla tua domanda: esatto, diciamo che quanto affermavi poteva valere magari sino alla 'vendemmia quantistica' del '26 (un'espressione comunemente utilizzata per quel periodo), dopo la quale la meccanica classica continua a valere ma solo nel mondo macroscopico. Proprio pensando a quei 'postulati' mi riesce ancora piu' difficile affidarmi alla tua lettura, che naturalmente trovo interessante sebbene un po' naif. Non si puo' applicare lo stesso paradigma perche' e' indimostrabile il suo contrario, cioe' che si puo'. Scusa ma in ambito scientifico ogni affermazione deve essere dimostrata o supportata da prove o da referenze, che vanno comunque verificate ( cioe': l'ha detto lui ed ho verificato).
Je vous en pris, c'est a vous.
"Non si puo' applicare lo stesso paradigma perche' e' indimostrabile il suo contrario, cioe' che si puo'."
Non sono d'accordo. Anzi, penso che nella storia della modernità una quantità sempre crescente di ordinamenti giuridici nazionali sia stata ispirata dal riconoscimento del corpus di diritti naturali di cui discutiamo, o se non altro che le condizioni di vita materiale delle persone si sia avvicinata alla consacrazione di quei principi. Pensa al mondo com'era 50 anni fa, e pensa a com'è oggi: non ti risultano evidenze verificate del mio pensiero? Faccio qualche esempio parziale e limitato, ma non avrai problemi a coglierne il tono emblematico. Il muro di Berlino è caduto (più libertà), gli Stati Uniti hanno superato il segregazionismo e hanno eletto un presidente nero (più eguaglianza). Pensa ai diritti di cui godevano le persone omosessuali 50 anni fa, e a quelli di cui godono oggi. Ancora, nel 1990 metà della popolazione mondiale viveva con un dollaro al giorno, nel 2007 la percentuale si è ridotta al 28% (più diritto di proprietà, ma anche più diritto alla vita e alla salute). Il prezzo dei cereali odierno, rispetto a quello degli anni '60, è drasticamente diminuito.
Pezzi non trascurabili del "paradigma" di cui sopra sono stati applicati e condivisi in luoghi del mondo precedentemente estranei a quel paradigma. In Africa, in Asia e in America del Sud: e spesso con risultati accettabili. Pensa a com'erano messi, che ne so, Brasile e India -le colonie, la schiavitù, la fame- e a come sono messi oggi. E poi, la primavera araba è senza dubbio un movimento ancora esposto a una quantità di possibili rovine e fallimenti: ma 50 anni fa? Ce li saremmo immaginati tutti quei movimenti civili a rivendicare il riconoscimento di quei diritti?
Naturalmente non penso che tutto vada bene e che il progresso sia ineluttabile, anzi. Ci sono posti del mondo ancora devastati da fame, ignoranza, tirannie eccetera. Ce ne sono parecchi, e chissà per quanto tempo ancora ce ne saranno. Ma mi sembra che equivalgano esattamente a quei posti in cui è negato il riconoscimento di diritti e libertà che io ho a cuore, e che si stanno distribuendo nel pianeta pur in modi controversi e contraddittori e talora provvisori se non fallimentari.
Ho letto Candide, e ho in antipatia l'idea -dogmatica, in fin dei conti- per cui il progresso sia una sorte, o che sia qualcosa di naturalmente e inevitabilmente dato come se fosse perborato d'uranio, o una retta orientata sul piano. E' anch'esso una costruzione umana, culturale, frutto di pensiero e azione, esposto a variabili e agenti esterni, ad attriti e reazioni. Forse è più simile a una retta spezzata che prima di passare da A a B passa per il numero di Avogadro, ad andar bene.
Però si produce e si radica nella storia (siamo più ricchi, più liberi, più uguali, meno ignoranti) e io penso che si produca quando le società si avvicinano nella pratica, nei costumi e nelle leggi all'adesione più razionale ai cosiddetti diritti naturali.
Insomma, le cose son complesse.
Ps: l'espressione "vendemmia quantistica" mi è nuova: la rivenderò ad ogni occasione.
Il fatto che tu non sia d'accordo e' una buona notizia. Resta pero' il fatto che non hai dimostrato nulla, e non per tua colpa, ritengo. Abbiamo ragione e torto entrambi allo stesso tempo, e' cosi' fidati, e vedrai che la 'master equation' ne svelera' tra qualche(?..) anno la ragione, se i matematici si danno una mossa. Gli esempi teorici sono numerosi, come sai dal 'gatto di Schrodinger' alle divergenze linguistiche. Per esempio: 'gelato alla crema': non e' corretto (francesismo) , ma chi si sognerebbe di dire gelato di crema? Percio' di fatto e' corretto, non in principio, comunque corretto e non corretto in tal caso convivono.
Facciamo cosi', io vado a fare la spesa. Nel frattempo, attendiamo di sapere cosa ne pensa Marco.
Sono perso nel turbinio del vostro dibattito. Cerco di mettere un ordine, non certo perché i vostri pensieri siano disordinati, ma per tentare di entrare in grave ritardo in un dibattito che ha un’economia propria. Allora, mi sembra che le questioni poste sul schermo siano riassumibili nei problemi fondamentali della filosofia morale, gnoseologica e sociologica (politica, del diritto…)
cosa è buono
cosa è vero
cosa è giusto
Detto questo si hanno un po’ le vertigini ad esprimere un’opinione su soggetti di tale portata.
Ultimamente sono parecchio attirato dal pragmatismo che in qualche modo ha dato una risposta a tutte le questioni risolvendo nel fatto che in ogni momento dato il buono, il vero e il giusto dipendono dagli obiettivi da realizzare, cioè dai “valori” che si danno alle cose e alle situazioni. In tal senso si evita l’ontologizzazione delle categorie suddette come vorrebbero i razionalisti, senza per questo “cadere” in un relativismo assoluto. In effetti, la soluzione del fare dei valori la ragione delle azioni, permette in un qualche modo di superare l’opposizione valore-norma, secondo la quale il valore sarebbe una preferenza soggettiva e la norma una costrizione oggettiva. Detto altrimenti, il valore stesso in quanto forma dell’azione esiste oggettivamente perché senza di esso la norma non funzionerebbe. Se nel caso del “buono” la cosa è evidente (è buono non uccidere, solamente se ciò vale nella situazione in cui mi trovo per cui considero il non uccidere come norma della mia azione) nel caso del “vero” la relazione è più complessa. Tuttavia siccome David parlava di “vendemmia quantistica” posso lanciarmi in un esempio di cui attendo la sua validazione: un fisico considera delle leggi vere o non vere a seconda dell’obbiettivo pratico della sua esperienza.
Arriviamo infine alla questione del giusto che è senza dubbio la più spinosa in quanto prende in considerazione dei valori che non sono più legati alla prassi individuale come il buono o alla prassi sperimentale o tecnologica come il vero, ma a valori collettivi. Da questo punto di vista trovo che i diritti naturali di cui parla Giorgio abbiano poco di universale, ma siano l’applicazione pratica di qualche cosa che “vale” in questo momento preciso. Cerco di spiegarmi meglio: una società è un gruppo di individui, una società dà valore a ciò che permette il suo mantenimento e lo sviluppo di ciò a cui dà valore (l’aspetto tautologico di questa frase è ricercato, in quanto i valori hanno una forma olistica e circolare: diamo valore a ciò che consideriamo sviluppare il valore), come ogni gruppo, il mantenimento dei suoi elementi è fondamentale, tuttavia, il mantenimento di “ogni” elemento può risultare pericoloso per il mantenimento del gruppo (la biologia insegna). Ora i “diritti umani” mettono l’accento sulla protezione dell’individuo che è pensato come in costante rischio (perdita della possibilità di espressione, perdita della possibilità di movimento…), la ragione non si trova nel fatto che l’individuo “valga” più del gruppo “naturalmente”, ma che il gruppo occidentale moderno ha trovato nella conservazione della libertà individuale il massimo fattore di sviluppo. Ora si potrebbe aprire tutto il discorso sullo sviluppo parallelo di liberalismo economico e filosofico, in questo senso, per rivenire ad uno dei nodi del vostro dibattito, John Locke sosteneva che la proprietà è un diritto naturale perché ciascuno è proprietario del corpo con il quale lavora la terra e siccome la terra produce solo se è lavorata, i frutti sono proprietà di colui che l’ha lavorata.
Ora Giorgio per marcare la “naturalità” di tali diritti sostiene che basti guardare il progresso che essi hanno permesso. Ciò, a mio avviso, non fa che validare un teoria pragmatista più che una teoria razionalista, in quanto tali valori funzionano perché permettono di mantenere e sviluppare ciò cui diamo valore, nel momento in cui non lo faranno più saranno sostituiti da altri valori.
Non mi sono riletto perché non ho il tempo, siate “linguisticamente caritatevoli”, per citare un altro pragmatista.
Provo a introdurre un altro elemento nel dibattito, spostando il piano della discussione sulla parte finale del post: interventismo e neutralità -per schematizzare- rispetto a emergenze umanitarie in corso all'interno di paesi sovrani stranieri.
Ho letto stamane che Hollande "non ha escluso" un intervento militare e ipotizzo che quella di Obama e Cameron sia per ora molto simile. Inoltre, il Times ha aperto con tutta la prima pagina dedicata al tema sostenuta da una riflessione che si sintetizza in una domanda probabilmente retorica, ma il cui significato non è trascurabile: "What kind of people would we be if we allowed the slaughter to continue?"
E quindi: che si fa? E perché?
No, non capisco. I valori come li hai indicati tu restano soggettivi, dal momento che 'si DANNO alle cose e alle situazioni', e resta il legame di dipendenza (tu scrivi 'dipendono') tra la categoria e il valore stesso, non so , sbaglio? Per me cosi' il relativismo resta (assoluto non e' un pleonasmo?), lo definirei un relativismo IN SITU. Che mi pare una diretta conseguanza di quanto vado sostenendo, cioe' vi nivito, invito soprattutto Giorgio, a fissare un'origine in modo da individuare un sitema di riferimento che valga per tutto (ecco la 'master equation' e la teoria delle corde), lasciamo pure stare il sistema di assi, cartesiani, polari.. che siano. Dove ritieni vada fissata, tale origine? Sul sole? Ti calcoli un baricentro tra varie galassie? Dimmi tu. Ecco perche' siamo obbligati a operare IN SITU, in un determinato luogo, a una determinata ora. Marco mi pare dica ' cosa occorre in quel luogo e quell'ora lo decido io' , una differenza soltanto formale. Riguardo al tuo esempio, anche se non parlerei di legge (che non dovrebbe dipendere da alcunche', fino a prova contraria) ma piuttosto di cosa e' verificabile o meno dato che consideri le esperienze, ebbene in quantistica una cosa e' e non e' allo stesso tempo, percio' e' chi sperimenta che di fatto decide il risultato nel momento della misura, insomma compie una violenza sul risultato stesso (questa e' una proposta , ve ne sono altre due).
In merito Giorgio a intervento o meno, vedi un po' TU cosa ritieni vada fatto, senza pero' affermare
che cosi' e' e deve essere. Personalmente propendo per il non intervento, ed ho 'ragione e torto allo stesso tempo' (come in quantistica).
Per tornare all'esempio della proprieta', io rispetto il fatto che per te Giorgio e' una cosa fica, ma non puoi dire che e' giusto e non puoi liquidare il discorso con 'chi se ne importa se a te non piace, tanto puoi rifiutarla', no, perche' per me la proprieta' e' una stupidaggine otre ad essere inefficace, non serve a un fico.
Liquidare un mio passaggio sulla proprietà con l'espressione "Cosa fica" significa ridicolizzarne il tono in modo gratuitamente scorretto: non sono un sedicenne che parla di andare a un concerto, e penso che rovesciare nella discussione -finora molto interessante- toni di questo tipo sia un contributo all'impoverimento della stessa. Due personaggi che a quanto ho capito apprezzi (Grillo e Travaglio) ricorrono a questa strategia metodicamente: io penso che siano trucchi retorici da cento lire.
Dopodiché, se fai anche la fatica di spiegarmi perché pensi quello che pensi della proprietà e dell'intervento in Siria, la discussione continua: altrimenti, giochiamo a muretto con la palla. Io cerco sempre di esporre argomentazioni che ritengo logiche, e spero di riuscirci; vorrei che i miei interlocutori facciano lo stesso, perché m'interessano più le motivazioni della posizione che non la posizione stessa.
Scusa, non volevo davvero polemizzare o apparire ironico, 'cosa fica' mi e' uscito cosi', scrivendo di fretta. Per il resto mi pare tu sia interessato a spostare il dibattito su intervento o meno, se vuoi ne possiamo parlare anche se a me sembra piu' interessante la discussione su se esistono meno principi universali. Se vuoi la mia opinione sulla Siria, per me e' no, probabilmente per te e' si' ma credo che nessuno dei due possa dimostrare di avere ragione, ne convieni? Entrambe le posizioni sono valide. Infine, non vedo l'utilita' nel possedere, meglio condividere, come ti dissi sono per una formula linux.
Dal punto di vista teorico sono favorevole all'interventismo umanitario. Penso che gli stati sovrani abbiano la responsabilità di proteggere i propri cittadini: e nel momento in cui si produce un meccanismo distorto in ragione del quale è lo stato stesso a minacciare o, peggio, a violare l'incolumità di quelli, allora la responsabilità di proteggere investe l'intera comunità internazionale. E fra i tanti modi con cui si può praticare l'esecuzione della tutela di quei diritti, c'è anche la forza. E fra i tanti tipi di forza, c'è anche la forza militare. "Se il faraone non libera gli schiavi" è una formula semplificatrice ma efficace di questa scuola di pensiero: non è giusto che gli schiavi siano schiavi, e professare la neutralità rispetto a un'ingiustizia significa in ultima analisi avallarne la pratica e la prosecuzione. O, in una parola a sua volta semplificatrice ma efficace, significa Ruanda.
Kouchner ha parlato addirittura di "devoir d'ingérence" a proposito di questa tipologia d'interventi. E ancora, Obama:
Io sono convinto che l’uso della forza per ragioni umanitarie può essere giustificato, come è stato nei Balcani, o in altri luoghi sfregiati dalla guerra. L’inazione dilania la nostra coscienza, e può portare a interventi ancora più costosi nel futuro.
Questo dal punto di vista teorico, in estrema sintesi.
La pratica è un'altra cosa, ovviamente soggetta a una quantità di elementi variabili e per certi versi imponderabili. La Bosnia non è il Kosovo, il Kosovo non è il Ruanda, il Ruanda non è la Somalia, la Somalia non è la Libia, la Libia non è la Siria, eccetera. Ogni caso richiede analisi politiche e militari, osservazioni approfondite e circostanziate. Analisi e osservazioni che dovrebbero porsi la preoccupazione fondamentale di misurare e valutare fattibilità e possibili conseguenze dell'intervento, le implicazioni a breve e lungo termine, mettere sulla bilancia le vite che s'intendono salvare con quelle che si rischia di andare a macellare. Altrimenti si rischia di riprodurre -per quanto il suo non fosse un caso d'interventismo umanitario- l'operato di Bush figlio in Irak: la politica estera fatta col didò, da uno che prima degli attentati dell'11/9 professava una linea isolazionista classica di realpolitik, cioè la posizione tradizionale della destra americana che vuole un esercito pesante per lasciarlo a difendere i confini nazionali.
Insomma, è uno dei mestieri più incasinati del mondo, e per fortuna che non lo faccio io. Mentre dal punto di vista teorico sono abbastanza persuaso, da quello pratico sono disposto a ridiscutere la teoria alla luce di contingenze e specificità del caso concreto.
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