giovedì 22 marzo 2012

Questo sentimento popolare nasce da meccaniche meccaniche

Qualche anno fa, stavo guardando una puntata del Grande fratello (radical chic!) quando a un certo punto una concorrente -vai a ricordarti il nome- ha fatto una cosa che mi ha lasciato secco davanti al video. Era durante l'intervista di rito fatta in seguito all'eliminazione. Ora non ricordo esattamente lo scambio, ma la ricostruzione è fedele:
Conduttrice: - Sai, diversi tuoi coinquilini si sono spesso lamentati del tuo carattere. Dicono che a volte sei troppo arrogante, che bisogna fare sempre come dici tu... non sei un po' troppo autoritaria?
Concorrente, con un piglio orgolioso: - Certo Alessia, io sono come sono. Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno. 
Conduttrice: - Sì, però quando si convive con altre persone...
Concorrente, ancora orgogliosa: - No, Alessia: io sono coerente con me stessa, non sono ipocrita. Se penso una cosa te la dico in faccia. Senza problemi.
Ci si potrebbero scrivere intere tesi di laurea, su una discussione come questa. Mi limito a evidenziare due concetti generali: il primo sancisce che "Essere come si è" sia un diritto fondamentale e una cosa universalmente buona; il secondo, e complementare, è il malinteso logico secondo cui ogni tentativo di temperamento dei propri difetti (e quindi ogni intenzione di miglioramento di se stessi) sia una manifestazione d'ipocrisia. 
E uno.
C'è una vecchia vignetta di Altan che contiene un pensiero secondo me essenziale a proposito dei criteri in base ai quali prendiamo posizioni e assumiamo punti di vista sulle cose:
C'è dentro tutto: c'è dentro sia l'inclinazione ad avere pensieri superficiali, violenti, malevoli e ignoranti sia la benvenuta disposizione alla conoscenza, all'equilibrio, all'approfondimento, alla soluzione razionale. La prima è una cosa di pancia, la seconda è una cosa di testa. Se non si tratta di bere o di mangiare, è meglio lasciar perdere gli stimoli che recepiamo dalla pancia, o almeno è meglio imparare a riconoscerli e a metterli in discussione spregiudicatamente, come se non fossero nostri. E spesso ci si accorge che non lo sono (nostri), o meglio che la loro origine si attesta in sentimenti o -quel che è peggio- comportamenti sciocchi nella migliore delle ipotesi, e violenti nella peggiore. Ci si accorge che sono delle cretinate con cui non vogliamo avere niente a che fare, anche se ne siamo titolari.
Sto schematizzando molto, certo. Però, per tradurre in termini pratici, cos'è il razzismo se non una quantità di pensieri superficiali e comportamenti violenti la cui espressione è estranea alla dignità della conoscenza e dell'approfondimento? Cosa si può pensare delle proteste urlate da chi pretende che un cittadino indagato dalla magistratura vada "In galera! E buttare via le chiavi!"? 
E così via.
Sarebbe disonesto negare l'esistenza dell'impulsività di questo tipo di sentimenti e pensieri, e Altan non lo fa: aggiunge anzi alla constatazione un elemento di contrasto, cioè la non condivisione di quei medesimi sentimenti e pensieri. 
E due.
C'è poi un aforisma di Marshall McLuhan che ruota attorno a questo stesso tema. Non prende in esame il momento della concezione, ma quello dell'espressione, e prima va a contestare la concorrente del Grande Fratello, poi va fare il paio con la vignetta di Altan, infine viene a bagnare i miei fiori:
I don't necessarily agree with everything I say.
La cosa più strepitosa dell'affermazione è senza dubbio l'avverbio necessarily. Ma comunque, ce l'avevo in mente da un po', questo post. Ha molto a che fare con chiacchierate e discussioni che ho avuto con qualche amichetto, là fuori, e naturalmente anche con molti materiali artistici che ruotano attorno al tema. Da Barry Lyndon al Giovane Holden. L'ho scritto oggi non tanto per manifestarle, ma perché sono appena cascato dentro le convinzioni stupide rivendicate dalla concorrente del Grande Fratello. Dopo aver letto del risarcimento di 50.000 euro che Beppe Grillo dovrà versare alla Fininvest, in ragione del mio disprezzo per quasi tutto quello che riguarda l'ex comico, ho detto: "Che bello." E subito dopo: "Ma perché? Che cretinata che ho detto."
E' una cosa di cui non so niente, magari ha ragione lui, magari no, ma in entrambi i casi è una causa di diritto civile fra un cittadino e un'azienda. E quindi non mi riguarda. E io non sono (non voglio essere) uno che borbotta cose di rancore, o che trae piacere da notizie che per il prossimo sono disavventure o potenziali ingiustizie. Già la mia testa fa fatica a capire le cose, figuriamoci la mia pancia.
E tre.

Certo, è una cosa piccola, irrilevante. La verità è che ho scritto questo lungo post anche perché prevedo sarà l'ultimo, per un po'. Torno a studiare, probabilmente come un forsennato, e tempo a disposizione ne avrò sempre meno: se tutto va bene. Se invece torno a fare i piripiri a punta e a montare a neve le virgole, significa che qualcosa è andato storto. 

È una gabbia di matti, ma è la mia gabbia di matti

Poi il Parlamento ne farà quel che riterrà di farne, ma mi sembra di capire che dentro la riforma del mercato del lavoro ci siano cose buone e cose meno buone. Sulla scorta di quanto ho scritto a proposito del rapporto che il Pd può avere con questo provvedimento, e più in generale sul rapporto che può avere con le potenzialità di rinnovamento di questo Paese dalle sembianze piuttosto spacciate, trovo notevole che il presidente e il vicepresidente sostengano due posizioni difficilmente conciliabili. 

mercoledì 21 marzo 2012

And I've been working like a dog

-Alla fine di questo post ho scritto che sarei successivamente tornato sul tema. Mentre scrivo queste righe, dice la tele che il governo proporrà al parlamento una riforma del mercato del lavoro. Riguarderà senz'altro anche l'articolo 18. Potrebbe succedere un casino dentro al Pd, o dentro ai sindacati o chi lo sa. Ma ho la sensazione che questo sia il momento più inopportuno della storia per approfondire contenuti relativi all'articolo 18. Quindi non lo farò. Però non cancello nemmeno il post, che per qualche altra riflessione viene buono. Prendetelo un po' come vi pare.-

Mettiamola così: io sono di sinistra e non so praticamente nulla della legislazione relativa al mercato del lavoro in Italia. Lasciamo per un attimo da parte i fantastiliardi di svirgoli e sfumature che si possono attribuire al mio essere "di sinistra" e concentriamoci sulla mia confessata ignoranza del tema specifico.

Precisiamo subito una cosa: non è vero che non so praticamente nulla. So un po' di cose, e molte non le so. Sono senz'altro superiori le seconde alle prime. Però so anche di non saperle, quelle che effettivamente non so. Di conseguenza, non ho opinioni solide e definitive sul tema. E anche se avessi un sacco di conoscenze molto dettagliate e specifiche, le mie opinioni sarebbero solide ma non definitive. Come sono razionale, accidenti.

Sul mercato del lavoro, so quello che sa più o meno chiunque sia decentemente aggiornato, mi oriento con sufficiente consapevolezza quando Camusso e Fornero vanno da Fazio a spiegare rava et fava, seguo le dissertazioni di Giannino su Radio24; conosco schieramenti e posizioni che ci sono dentro al dibattito politico sul tema. Fine. Per il resto, faccia il mio partito di riferimento. Non c'è niente di male a delegare al proprio partito punti di vista, istanze, proposte di legge e battaglie culturali, anzi: ricevere dai cittadini la delega relativa a punti di vista, istanze, proposte di legge e battaglie culturali è quello che deve fare un partito. Poi uno può anche dire vaffanculo schifo partiti merda hai una cartina buuuuu, ma questo è un altro discorso. A me piacciono i partiti. Mi piacciono un sacco. Credo che siano una delle idee più geniali avute dall'umanità. Certo, talvolta dentro i partiti sono nate e si sono sviluppate idee e ambizioni disastrose per le sorti dell'umanità. Ma mica è colpa dei partiti. Su.
I partiti, sul piano teorico, sono una cosa davvero intelligentissima, secondo me. Ma tanto. Tipo al livello degli autogrill, della lavatrice. E guardate che la lavatrice è una cosa da restarci secchi, tanto è geniale. 
Comunque, oggi è primavera e sono di buonumore. Quindi mi perdo via. Cambio discorso. Stavo dicendo.
Conosco sufficientemente bene il Pd, penso che sia pieno di difetti e di problemi ma che al tempo stesso sia di gran lunga il miglior partito che c'è in Italia. Per dire di come mi sembrano messi gli altri. Mi fido del Pd, mi fido delle persone che lo dirigono, di quelle che ne definiscono le posizioni e di quelle che ne declinano i termini nel dibattito politico. E non solo mi fido di loro, ma ritengo anche che siano intelligenti, preparati, capaci di fare le cose. Dite di no? Secondo me vi sbagliate. Possiamo discuterne. Ma un'altra volta. Ora volevo parlare dell'articolo 18.

Quello che mi affascina -diciamo così- della discussione sull'articolo 18 è lo status simbolico che assume per le varie parti in causa. A livello superficiale, sembra che chi lo difende lo reputi un diritto rappresentativo dell'intero bagaglio dei diritti dei lavoratori e chi lo critica lo ritiene invece responsabile principale della crisi economica. Poi ci sono sfumature e compromessi, ma i toni si accendono su questo piano: giù le mani dall'articolo 18, aboliamo l'articolo 18. 
Da tempo, ho perso molta della stima che nutrivo per Veltroni. Non me ne frega più molto di lui. (Ma come? E quello che dicevi del Pd? Vedere alla voce "pieno di difetti e di problemi") Però, ecco, prendiamo in esame i contenuti della sua dichiarazione sull'articolo 18. Ha detto, in termini concreti, che l'articolo 18 non è intoccabile. Che si può mettere in discussione.
A prenderlo alla lettera, ha detto una banalità sconcertante. Mettiamo in discussione l'articolo 18. Mettiamo in discussione. Si può dire di qualsiasi cosa riguardi la cultura umana nel senso più ampio del termine. Si può mettere in discussione qualsiasi cosa, no? Mettiamo in discussione l'equità dei prezzi delle case, la ricetta del ragù alla bolognese, la morte di Gesù Cristo, quella di Paul McCartney. Che problema c'è. 
A non prenderlo alla lettera, Veltroni ha detto una cosa intelligente e coraggiosa (Ma come? E quello che dicevi sulla stima persa? Vedere alla voce "di gran lunga il miglior partito che c'è in Italia"). Già che siamo in ballo, balliamo. Vediamo se un articolo di uno statuto approvato 42 anni fa non è riformabile, rivedibile, migliorabile, abrogabile. Le cose cambiano, la società cambia: e le leggi che la governano sono sottoposte a un cambiamento parallelo. Spesso, cambia prima la società e poi cambiano le leggi. E' un articolo di uno statuto, appunto: non è perborato d'uranio. Non appartiene all'immutabilità delle entità naturali, insomma: è una cosa che hanno scritto gli uomini. Si può ragionarci sopra? Sì. E ragioniamoci sopra, diamine.
A prenderlo dal punto di vista di un dirigente del Pd, Veltroni ha detto una cosa da andare sotto casa sua alle cinque del mattino, suonare il campanello per manciate di quarti d'ora e nel frattempo strillare: "Ma che cazzo fai?!? Ma cosa cazzo dici?!? Ma porcaputtana, ma sei scemo?!? Walter! Walteeer!! Ma che straminchia di dichiarazione è?! Cioè, arrivi tu, e ... e fine, capito?!? Sindacati, partiti, giornalisti, tesserati! Un casino infinito! Cristomadonna, dico, Walter, ma che cazzo c'hai nel cervello? Le figurine Panini?" (Vedere alla voce "ma che al tempo stesso")
Vendola, per esempio, si è molto arrabbiato per le parole di Veltroni. E, con lui, tutto il mondo legato alla CGIL e lo zoccolo duro della sinistra italiana. Perché? Perché
L'articolo 18 non si tocca.
Al che, dato il sapore vagamente dogmatico dell'affermazione, uno dovrebbe chiedersi, e chiedere: e perché non si tocca? Perché
L'articolo 18 tutela i lavoratori dai licenziamenti senza giusta causa.
A questo punto, riflettendo sul contenuto, possiamo pattuire quanto segue: nessuno dovrebbe essere licenziato senza giusta causa. 
[Poi vabbè, l'articolo 18 vale per le aziende con più di 15 dipendenti (5 se agricole). E tra l'altro ipotizzo che la maggioranza dei lavoratori italiani non lavori in aziende con più di 15 dipendenti. Facciamo che ci siamo capiti.] 
Il che ci conduce a tentare di condividere quali siano le cause giuste e quali siano le cause non giuste. La legge lo fa? No. La legge delega la decisione a un giudice del lavoro.

Mi fermo qui, intanto. Proseguo un'altra volta che sto menando il torrone da troppo tempo.

martedì 20 marzo 2012

Ce lo siamo figurati, ed è andata mica male

Sono passati quasi 4 anni, ormai, ma io quel "Figurati" me lo ricordo bene. L'ho sentito e contestato per mesi. Era un "Figurati" convinto e disincantato, il nocciolo di qualsiasi posizione espressa da chi è certo di saperla lunga. Era un "Figurati" a cui si tentava di rispondere con dati, notizie, argomentazioni. Guarda che alle primarie sta vincendo in Stati dove era previsto che vincesse Hillary, guarda che -sì- il partito preferirà la Clinton ma lui raccoglie comunque un sacco di soldi da donazioni private, guarda che fa dei discorsi splendidi e coinvolgenti, guarda che sull'Irak è più credibile lui, guarda che gli americani non sono mica tutti razzisti. 
Niente. Non c'era invito all'osservazione delle cose ("Guarda che", appunto) capace di scalfire la persuasione dialettica di quel "Figurati".
Figurati se gli americani eleggono un presidente nero.
Poi Obama ha stravinto le elezioni, e una quantità di quei "Figurati" si è successivamente trasformata in "Aspettiamo di vedere cosa fa", "Non è che siccome è nero ha sempre ragione lui" e affermazioni simili. Io sono entusiasta ancora oggi per l'accesso di un 47enne preparatissimo, competentissimo, carismatico, in gamba e già che ci siamo nero alla carica di presidente degli Stati Uniti. La vittoria di Barack Obama è stata una cosa fantastica al di là dei giudizi che si possono formulare sul suo operato. Una delle sue implicazioni più divertenti e soddisfacenti, a qualche mese dal termine del mandato, è testimoniata da questa battuta efficace di Robert De Niro:
Callista Gingrich. Karen Santorum. Ann Romney. Ma pensiamo davvero che il nostro paese sia pronto per una first lady bianca?

lunedì 19 marzo 2012

They cause scenes

Da ragazzini, si chiacchiera e si fantastica molto sull'elaborazione di progetti di qualsiasi tipo da portare avanti con la ballotta degli amichetti. Progetti di una vita come girare un film insieme, mollare tutto e comprare un albergo ai Caraibi, andare a ritirarsi nella silenziosa serenità di una baita in montagna. 
Si tratta di progetti elaborati, appunto: quello che succede sul piano concreto, solitamente, è che ogni amichetto cerca invece di trovare una sua realizzazione personale attraverso percorsi più graduali e convenzionali.

Mi piace pensare che l'idea alla base del progetto Improv Everywhere sia un'eccezione alla regola di cui sopra. Si tratta di un collettivo di newyorkesi stupidini che si è autoassegnato il compito d'inventarsi scene d'improvvisazione fra lo squinternato e l'acuto, con l'obiettivo di sottrarre per qualche minuto il pubblico allo sbriciolamento dovuto a prassi e pensieri della routine quotidiana. 
Sono bravi, molto: intrattengono, divertono, sono in missione per conto del benessere altrui, nel loro piccolo migliorano il mondo. Il loro canale Youtube è qui.

domenica 18 marzo 2012

Give 'em the boot, you know I'm a radical

Sulla Lettura di oggi, c'è un pezzo d'apertura di Mariarosa Mancuso che parla del declino dei radical chic. Mariarosa Mancuso è nota soprattutto per le sue recensioni letterarie e cinematografiche pubblicate sul Foglio. Sa scrivere bene. Leggendo i suoi pezzi, a volte viene il dubbio che i suoi siano gusti un po' costruiti ed esibiti, che qualsiasi critica formuli sia espressa alla luce del principio sacro agli alternativi "Mi si nota di più se dico che fa schifo o se dico che fa tanto schifo che bisogna vederlo?" Ma si tratta di un dubbio a sua volta suscettibile di critiche: è sempre meglio assumere la convinzione che l'interlocutore sia sincero e in buona fede, se si vuole guadagnare una credibilità da interlocutore sincero e in buona fede. Altrimenti si finisce al Processo di Biscardi a discutere degli UFO nella supermoviola.
Ma comunque: potrei anche arrivare al punto, ma prima vorrei far notare alla redazione de La Lettura che io li leggo. La domenica, vado a pranzo dai miei e mentre bevo il caffè dò sempre un'occhiata. Settimana scorsa c'era un articolo straordinario sul rapporto fra sinistra e modernità, declinato nella fattispecie nel mondo dell'agricoltura e delle modifiche genetiche. Oggi c'era una bella riflessione sul valore della pena nell'Italia contemporanea, più altre cose interessanti. E però c'erano anche un articolo a proposito dei fallimenti delle aspirazioni musicali e compositive di Nietzsche e un bel paio di pagine sulla sopravvivenza della Recherche di Proust nei gusti del pubblico a svantaggio di Joyce e Musil. E non è tanto che si parli di Nietzsche e Proust, è il modo in cui se ne parla che porta il lettore a verificare la data di pubblicazione del giornale: 2012? 1912? Non si sa. Non si capisce bene. Non sempre.
Comunque, ora arrivo al punto. 
Qualche tempo fa, un mio amichetto coinquilino s'è comprato una bella giacca marrone. (Ma allora ci prendi per il culo? Stai facendo le pippe al criceto, altro che arrivare al punto. Buoni, che c'arrivo. E poi è domenica, c'è brutto tempo: che cazzo avete da fare?) Si tratta di una bella giacca marrone, di quelle un po' spesse da portare sopra una camicia o un maglione leggero, con addosso un paio di jeans. Niente di sbanfone o di ridondante: una cosa buona per passeggiate, aperitivi, serate all'aperto in autunno o primavera. Insomma una giacca. Bella. Marrone. Una bella giacca marrone.
Commentando l'acquisto e la scelta che lo ha determinato con qualche amico, a un certo punto nella chiacchierata si è infilato il binomio radical chic. Naturalmente stavamo a scherzà, ma ci siamo prontamente liberati della tentazione di legare quella scelta estetica alla categoria radical chic. Quello che mi è venuto in mente subito dopo, è che io non lo so mica cosa significhi quel binomio. Cioè: ho dedotto il suo significato grazie a tutti gli usi che ne vengono fatti, ma nessuno mi ha mai spiegato da dove arrivi, per quali ragioni sia stato escogitato e che storia ha avuto. 
Me l'ha spiegato brevemente Mariarosa Mancuso, sollecitando la mia pistineria ad approfondire la cosa. Perché? Perché se uso una parola voglio sapere di che diamine si tratta. Sono eccentrico così. Comunque, tornando a Mancuso:
Anche un esperto cacciatore di radical chic come Tom Wolfe — suo il reportage che nel 1966 coniò la definizione, dopo un party in casa del compositore Leonard Bernstein, ospiti d’onore le Black Panthers — avrebbe qualche difficoltà a reperire i nuovi modelli. «Non leggo i libri in classifica» e «non guardo la tv, neanche ne possiedo una» sono stati per anni due capisaldi del radical chic pensiero.
Leonard Bernstein è quello di West Side Story, per il grande pubblico. Per chi invece s'interessa di musica contemporanea, è uno dei compositori statunitensi più famosi e importanti del Ventesimo Secolo. Le Black Panthers erano un movimento politico americano sinistrissimo, battagliero e rivoluzionario che appoggiava la causa dei fratelli neri in America. 
Leonard Bernstein, le Black Panthers.
A un certo punto, in quegli anni là, il primo ha dato una festa con lo scopo di raccogliere fondi per le seconde. Alla festa, partecipò una fetta di società newyorkese evidentemente facoltosa, raffinata, a suo modo aristocratica. A me vengono in mente o Scott Fitzgerald con il suo Gatsby disperato o membri tossici dei Rolling Stones morti annegati in piscina, quando penso alle feste newyorkesi. Immagino che in questo caso siamo più nel primo emisfero che nel secondo. E poi magari Brian Jones è morto da un'altra parte. Boh. Non lo so.
Comunque: Tom Wolfe è uno dei più grandi scrittori contemporanei, e fra le tante meraviglie che si è inventato nella sua vita c'è pure questa formuletta, che ha la caratteristica di evidenziare la dissonanza identitaria relativa al sostegno di una forza politica intransigente, di strada e incazzatissima da parte di un mondo invece esclusivo, elitario, sbrigati che fra poco Rudolf Khametovich attacca i primi passi.
Quindi possiamo dire questo: radical chic è uno chic che sostiene forze politiche radicali. Chic nell'accezione di chic, radical nell'accezione più ampia di massimaliste, rivoluzionarie. Massimaliste, rivoluzionarie e di sinistra. Le sostiene per mezzo di una partecipazione diretta, con un impegno concreto? No, le sostiene mollando la lira. Perché? Perché ha deciso così. E sono cazzi suoi.
Fine.
Anzi, fine un paio di gemelli d'oro bianco del Sudafrica: dalle origini semantiche si passa all'uso concreto, alle evoluzioni attraversate dal binomio nel corso della storia.
Qual è il bello -o il brutto, o il "siamo solo amici"- della questione? E' che, oggi, Italia, 2012, chiunque definisca qualcun altro un radical chic, più o meno, intende dire che è

1) un ipocrita
2) un omosessuale
3) uno che non ha mai lavorato un giorno in vita sua
4) uno che se la tira
5) uno stronzo
6) tutte e cinque le voci sopraelencate.

Io non so attraverso quali meccanismi sia passata la vita di quest'espressione, ma mi sembra che sia proprio così. E poi l'utilizzo della formuletta è vincente nella misura in cui sottrae l'esigenza di argomentare. Quello lì è un radical chic. Panino con il prosciutto buono. Radical chic no buono. L'Atalanta allo stadio buona. Lettura libro pubblicato da Adelphi no buona.
E poi l'espressione è un jolly giornalistico, una chiavistello che risolve qualsiasi polemica, un post-it buono per qualsiasi frigorifero. 
Sei contro la TAV? Beh, sei chiaramente un radical chic. 
Non ti piace Di Pietro? Vi conosco, voi, radical chic di sinistra pallemosce senza il coraggio di affrontare davvero Berlusconi.
Ti fa cagare Il grande fratello? E' perché frequenti troppi radical chic.
Ogni tanto guardi Il grande fratello? Non vi sopporto più, voi radical chic: adesso guardate pure Il grande fratello pur di distinguervi. 
Quel pessimo giornalista che risponde al nome di Vittorio Feltri sarebbe capace di dare del radical chic a un tredicenne con la fronte ricolma di acne e la PSP in mano, se volesse criticarlo.
E mi sembra che anche Mariarosa Mancuso caschi in questa schematizzazione povera e inutile alla comprensione delle cose. E le prudevano le mani, a quanto ho potuto capire.
Concita De Gregorio ha criticato I soliti idioti? E' una radical chic. Umberto Eco parla spesso di Kant? Idem. Daria Bignardi e Serena Dandini fanno tv su La7 con ascolti scarsi? Dentro pure loro.
E non si tratta nemmeno di schierarsi. Anche a me l'articolo su I soliti idioti è sembrato una cretinata, ma non per via di un malinteso tono elitario da parte dell'autrice. Mi è sembrato una cretinata perché si percepiva che dietro non c'era una conoscenza approfondita (cosa sia stato Little Britain, per esempio) del tema, e si poteva concludere che le argomentazioni offerte erano le stesse che utilizzava Marco Tullio Cicerone, duemila anni fa, coi suoi O tempora o mores
Con la quantità di contraddizioni gigantesche a cui si espone, a sua volta, chi pretende di denunciare il suo fastidio per i radical chic: il sommario del pezzo di Mancuso parla di "Estremismo modaiolo". Quindi i radical chic averebbero la caratteristica di essere presuntuosamente elitari, arroganti di fronte ai gusti più popolari, aristocraticamente rinchiusi nella loro torre d'avorio con parquet chiaro, scrivanie impero e senza televisione ma, al tempo stesso, triplo e mezzo in avanti carpiato coefficiente di difficoltà 3.1, modaioli. Eh, cazzarola, no. Va bene che al Foglio sono maestri nell'arte del mezzo imbroglio verbale e dello sgambetto retorico, ma pure modaioli no. 
Mariarosa Mancuso, ti stanno sul cazzo Concita De Gregorio, Serena Dandini, Daria Bignardi e Umberto Eco? Diosanto, Scrivilo. Scrivi quello. Scrivolo con tutti dei fronzoli e delle perifrasi e delle iperboli e delle minchie a motore ma almeno non prenderci per il culo mentre soddisfi l'urgenza tutta tua di dare addosso a persone che non ti piacciono.
Che poi rubi il tempo a quelli come me, radical chic nati, che fra poco ricevono qualche amico e guardano per la centesima volta un film di Tony Scott con Bruce Willis, L'ultimo boy-scout

venerdì 16 marzo 2012

"Science isn't something you believe in: science has to be proven, or they don't get to call it science."

Ho appena letto un'intervista fatta a Caparezza. Non sono un suo fan, ma mi è sempre stato simpatico e diverse sue canzoni mi piacciono abbastanza. Gli vorrei dire qualche cosa.

La prima è che la differenza fra agnostici e atei è una di quelle capriole linguistiche tanto eleganti quanto prive di sostanza. Dal punto di vista stilistico, non è male sostenere di essere agnostici piuttosto che atei. L'agnosticismo rievoca un'inclinazione al dubbio, e il dubbio veicola sempre prudenza intellettuale, saggezza e moderazione critica. Capita di sentirsi dire che gli atei sono come i credenti, solo al contrario. Gli agnostici invece rivendicano la pratica di una terza via più razionale e consapevole dei propri limiti. Bah. Dice Wikipedia:
La differenza sta nel fatto che, mentre l'agnostico afferma semplicemente l'impossibilità di conoscere la verità sull'esistenza di Dio o di altre forze soprannaturali, l'ateo non crede nell'esistenza di alcun Dio o qualsiasi altro tipo di entità o forza superiore.
Più ci penso, più il nodo della questione mi sembra ridursi a un gioco di parole. Mentre l'ateo dichiara di non credere in dio, l'agnostico dichiara di preferire una sospensione del giudizio, in ragione del fatto che l'esistenza di dio è ipotesi preclusa a una conoscenza verificabile. Il punto è che se gli atei sono atei, è precisamente in ragione del fatto che l'esistenza di dio è ipotesi preclusa a una conoscenza verificabile. La differenza, semmai, sta nella lucidità di procedere in modo consequenziale e raggiungere una conclusione razionale e adeguata alle premesse: se l'osservazione di un fenomeno è automaticamente interdetta dalle caratteristiche essenziali del fenomeno stesso, è logico pensare che quel fenomeno non esista, mentre è illogico crederci quanto lo è astenersi dal ragionare sulla sua esistenza. Non ci si può astenere dal porsi il problema dell'esistenza di qualcosa che non è dimostrabile empiricamente. L'astensione prevede una scelta che in questo caso è sottratta dall'oggetto stesso dell'osservazione. Se l'esistenza di dio non è dimostrabile, non è dimostrabile: da che mi astengo?
Io sono ateo, e non lo so se dio esiste. "Non lo so" significa che le prove a mia disposizione per affermare la sua esistenza sono insufficienti: e finchè non lo so, penso che non esista. Finché non lo so, resto ateo. Ma non si tratta di una posizione a priori: è invece una persuasione a posteriori, continuamente confortata dalla non-osservazione di dio. Se domattina mi sveglio e dopo aver aperto gli occhi vedo dio, e se verifico l'osservazione in virtù di elementi concreti, allora non è che ci credo: sperimento la sua esistenza. Lo conosco. Lo so che c'è. Non è un atto di fede, non è un dogma: è una roba lì da vedere.
E poi: come si comportano gli agnostici rispetto alle dottrine liturgiche delle varie fedi religiose? Ogni tanto pregano perché, vai a sapere, io mi astengo dal giudizio ma magari dio c'è? Rispettano i comandamenti pari e non quelli dispari? Ho la sensazione che anche da questo punto di vista gli agnostici si comportano esattamente alla stregua degli atei: come se dio non ci fosse. 
Insomma, la mia posizione è piuttosto drastica sul tema: penso che gli agnostici siano atei che si chiamano agnostici. 

La seconda cosa è che a me non me ne frega una mazza che Padre Pio fosse perseguitato dalla Chiesa ufficiale, come dice Caparezza. L'indipendenza di giudizio è un valore che va applicato a qualsiasi ambito di cui c'interessiamo. Posso al limite solidarizzare con uno che viene perseguitato dalla Chiesa, ma la cosa di per sè non costituisce una ragione sufficiente alla determinazione di un mio apprezzamento. A Hitler piaceva Wagner: che bisogna fare? Proibirne l'ascolto alla specie umana? Thomas Jefferson possedeva degli schiavi: devo andare in Thailandia a comprare un paio di ragazzine?
Il punto è che Padre Pio era un imbroglione fatto e finito, come peraltro ha dimostrato uno storico qualche anno fa. E a me gli imbroglioni fatti e finiti non stanno simpatici, soprattutto quando fanno leva sulla fede religiosa di una società culturalmente deprivata e arretrata come quella pugliese d'inizio Novecento. 

La terza cosa è che questo libro è uscito nel 2008, e questa sua canzone nel 2012. Eh.

giovedì 15 marzo 2012

I read the news today, oh boy

E' un tema di dibattito ancora centrale e vivissimo, quello che ruota attorno ai meccanismi di produzione dell'offerta informativa, culturale e -più complessivamente- politica del nostro Paese. E' un dibattito che coinvolge la responsabilità di chi è titolare di un potere, che analizza le modalità di esercizio di quel potere: dalle intenzioni di partenza ai risultati finali. 

E' uno di quei temi di dibattito la cui complessità tende a escludere la plausibilità e la ragionevolezza di posizioni assolute e definitive. Ci sono più sfumature e cioèminchia su questa terra, Orazio, di quante ne sogni Alfonso Signorini.

Ma comunque. Quello che ho da dire a riguardo, più o meno, sta qui sotto. 

Da quelle brave persone che sono i filosofi dell'antichità greca, abbiamo imparato che da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Non sto ad argomentare: spero non ce ne sia bisogno.
Da quelle brave persone che hanno tirato in piedi il movimento illuminista, invece, abbiamo imparato che l'ignoranza fa schifo. Fa tanto più schifo quanto più è inevitabile, e nel mondo in cui viviamo è sempre più evitabile. Quindi fa proprio schifo, tanto di più. La dimensione quantitativa di informazioni, notizie, analisi e punti di vista ha raggiunto un volume tale per cui la garanzia di qualità è data prevalentemente da un lavoro attento e critico di selezione della quantità. Il progresso ce l'abbiamo in faccia tutti i giorni: lo frequentiamo da vicino solo quando scegliamo consapevolmente l'offerta più onesta, più ricca, più adeguata al senso delle cose e del mondo in cui viviamo.
Per questi due motivi, io tendo a pensare che il potere che dispone chi è responsabile di un'offerta giornalistica e culturale non si concretizzi solo a breve termine -con i contenuti dell'offerta stessa- ma anche a lungo termine, in ragione di un'influenza graduale che determina la più ampia tendenza alla formazione di criteri orientativi duraturi e caratterizzanti. E' un problema di stimoli nell'immediato, e di crescita nel non immediato. Se larghe fette di popolazione sono disinformate o informate mediocremente, la reponsabilità principale è di chi le disinforma o le informa mediocremente: precipitando in questo modo la dinamica informativa in un circolo vizioso da cui scaturiscono scelte inconsapevoli, o mediocri, confortate da informazioni ulteriormente inconsapevoli e mediocri. Come diceva lo speaker degli autoscontri installati vicino a casa mia, qualche settimana fa: vanno veloci, si divertono.

A chi invece offre informazioni d'intelligenza e qualità superiori alla media, spetta il compito di fare il proprio mestiere e, perché no, di denunciare -con toni credibili e misurati- il circolo vizioso di cui sopra. E' quello che ha fatto Michele Serra, oggi, impeccabilmente: con meno parole e più efficacia di me.
Sono i media grossolani a costruire un pubblico superficiale. L'alibi, poi, è accusare il pubblico di essere superficiale.
No: non ho preso in considerazione le implicazioni economiche e commerciali della faccenda. Non ho considerato cioè, per dirla con una formula facile, "Quello che piace alla gente". Me la cavo con i toni liquidatori di Bill Murray, intanto. E magari ci faccio un altro post, un giorno.

martedì 13 marzo 2012

"Tornai a casa stanco, ma felice"

Non scrivo mai di cose mie nel blog, perché penso che quelle che succedono nel mondo siano molto più interessanti e significative. A volte mi capitano cose divertenti, e allora scrivo un post veloce. Ma molto raramente.
Oggi ho avuto una giornata ricca di piccole minchiatelle. Non c'è niente di appassionante o avventuroso, di per sè, ma è una collezione interessante di piccole cose. Insieme fanno un certo effetto. Almeno spero. Ora le metto nero su bianco. Poi vado a letto perché sono piuttosto stravolto, ma intanto, caro diario:

Stamane, mi sveglio tardi (9:30 passate) accendo l'iCoso e leggo le solite mail recapitatemi nottetempo. Una di queste -l'oggetto è "allarme rosso"- è di una mia amica: chiede di tradurre al più presto una frase in inglese. Le serve sul lavoro. E così, appena sveglio, mi metto a fare una pur breve traduzione  dall'italiano in inglese. Le ossa un po' indolenzite e gli occhi incistati.
Dopo colazione e bagno, salgo in auto per andare a Milano. Mi fermo a far benzina e incontro una mia vecchia professoressa del liceo. Mi chiede come sto, cosa faccio, eccetera. Le dico che voglio diventare insegnante di letteratura inglese. Se ne rallegra. Mi dice che è dura. Lei non vede l'ora di andare in pensione. Facciamo due chiacchiere ancora e poi ci salutiamo.
Giunto a Milano, vado a colloquio da un docente per via di un esame che dovrò sostenere fra un paio di mesi. Inizialmente dice che non ci sono problemi, poi si allarma per via di un dubbio regolamentare relativo all'iscrizione di esami singoli. Io gli dico che ho già telefonato in segreteria e non ci sono problemi. Lui sembra molto più preoccupato dagli scrupoli regolamentari che tranquillizzato dalle mie parole. Fa quattro telefonate, una di queste al preside di facoltà: tutti i suoi interlocutori confermano quanto gli ho appena detto, evidentemente. Sto lì fra il divertito e l'incredulo. Lui finisce il giro, e commenta il suo benestare definitivo con le parole "Mi scusi, eh, ma la prudenza non è mai troppa."
Abbandono il colloquio e mentre vado in copisteria a fare delle stampe sento un militante del comitato marxista-leninista della statale che discute con uno studente. Colgo un passaggio come "Ma come fai a dire che si sta meglio oggi?" ed entro in copisteria. La commessa ha appena -appena- detto alla sua collega che è incinta, e c'è un bel clima di festa. Clima a cui non sento di partecipare, purtroppo, perché mi rendo conto di non aver trasferito i documenti che devo stampare né su una chiavetta USB né sulla casella mail. Mi tocca tornare in biblioteca, perché per via di un accidente non ho con me la batteria del Mac e non posso accenderlo lì.


In biblioteca ci sto due minuti. Esco, e mi rendo conto di non aver segnato su un foglio il numero del box in cui ho depositato il mio zaino. Non me lo ricordo. Non me lo ricordo proprio. Una bibliotecaria mi dice che posso aspettare le 18, quando tutti i box vengono aperti dopo la chiusura, o provarli tutti,  se mi ricordo almeno il codice, dal display: uno per uno. Sono 155. Scelgo la seconda. Parto dalla 1. Mi fermo alla 48, quella giusta, dopo una buona mezzora. Non avrei mai detto che il mio box era il 48.
Stampo i maledetti documenti, faccio due passi e prendo il tram. Alla fermata successiva, sale il controllore. Mi chiede il biglietto. "Non ce l'ho", dico sorridendo. "Le faccio la multa", mi risponde gentilmente. Mentre compila il suo verbale, vengo colpito da una bizzarra ventata di buonumore. Mi piace essere lì, in quel momento, con un rappresentante dello stato che mi responsabilizza per mezzo di una sanzione economica. Mi rendo conto di quanto abbia senso il sistema, da questo punto di vista. Se fai lo stronzo, paghi. In questo modo, l'abusata e travisata formula "Così impari" assume un significato concreto.
Torno a Rivolta, vado da una ragazzina per le solite ripetizioni. C'imbattiamo in una serie di problemi con dati e soluzioni che non tornano, per via di un errore di stampa che negli ultimi anni ho scoperto non essere così raro. Nel frattempo, mi scrive un'amichetta per ottenere un aiuto tecnico, diciamo così, per ripetizioni che invece sta facendo lei.
Compro due robe al supermercato e torno a casa a preparare la besciamella per le lasagne. Le ho cucinate stasera. Buone. La prossima volta, devo fare più ragù.

lunedì 12 marzo 2012

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Si fa sempre in tempo a cambiare idea, anche quando si è convinti di averne una migliore delle altre: basta pensarci su, o basta che ti capiti di leggere qualcosa di più completo e intelligente con la razionale predisposizione di poter essere persuaso. 
Ieri notte ho scritto una cosa sul matrimonio omosessuale. Francesco Costa ne ha scritta un'altra. Non contraddice del tutto la mia posizione, per certi versi la conferma, per altri la elabora da un punto di vista che non avevo mai considerato. 
Non ha mica tutti i torti. 
Mi piace un sacco cambiare idea.

"Let me ask you something: how is my marriage, your marriage, or anyone else's marriage even marginally affected by the gay couple two doors down from them also getting married? And if it does, how is that their problem?"

Poi io voglio bene al Pd. 
Gli voglio bene come se ne vuole a un gruppo di persone cui si riconosce bravura, dedizione, voglia di fare e senso delle cose. Certo: è un gruppo di persone che ha messo insieme un suo capitale di errori, di orientamenti fallimentari e di mediocrità assortite ma sono abbastanza persuaso del fatto che un bel pezzo delle potenzialità di ricostruzione dell'Italia (questo bisogna fare, in estrema sintesi: ricostruire l'Italia, e Berlusconi c'entra sì e no) passi attraverso le potenzialità stesse del Pd. Magari mi sbaglio, ma penso che le sorti del Paese in cui viviamo siano legate alle sorti del Pd molto più di quanto non siano legate alle sorti di qualsiasi altro partito italiano.  
Per queste ragioni, trovo utile evidenziare che le parole di Rosy Bindi sul matrimonio sono espressione emblematica di un dogma vero e proprio. 
Lo so: viviamo in Italia, c'è il Vaticano, i Patti Lateranensi eccetera. E sono d'accordo: le cose si cambiano gradualmente, un pezzo alla volta, lungo una curva temporale e culturale che sta su un orizzonte lungo. Ci sarebbe da festeggiare anche solo per il raggiungimento delle unioni civili, altro che il matrimonio. Il riformismo funziona così. Va bene. Sono d'accordo.
Ma una dichiarazione vale per una dichiarazione: e non si può girare attorno a quella rilasciata da Rosy Bindi senza concludere che l'amore omosessuale sia meno degno di quello eterosessuale. E non esiste risposta razionale, dal punto di vista etico, che possa soddisfare chiunque chieda "E perché?" all'attuale presidente del Pd. 

venerdì 9 marzo 2012

In medius

Un po' condizionato dalla baraccata di premi che si è portato a casa, un po' incuriosito dalla riflessione scritta a proposito da Francesco Piccolo, un po' perché andare al cinema è sempre bello, ieri pomeriggio ho visto The Artist
E ora sarebbe tanto invitante scrivere che è una vaccata di film, scalare la montagna dell'orientamento automatico di certe snobberie cinematografiche, avventurarsi nella denuncia del conformismo di molti critici e recensori con il loro pubblico di lettori al seguito: elitario e al tempo stesso nostalgico dei cari vecchi tempi suoi.
Sarebbe altrettanto invitante celebrare The Artist come opera trasgressiva dal punto di vista espressivo e vincente sul piano commerciale, evidenziare il gioco di specchi fra l'ambientazione Anni Venti e la più sostanziosa serie di riferimenti agli Anni Quaranta, cesellare la dolcezza espressiva di una regia leggera e disperata insieme.
Il problema è che a me The Artist è -semplicemente, banalmente, sostanzialmente- piaciuto. E' un bel film, una bella metapippa che sfrutta il passaggio dal muto al sonoro -che forse Piccolo sopravvaluta, rispettivamente agli equilibri di forma e contenuto- per raccontare una storia d'amore e mettere in piedi un finale gustosissimo. Un bel film, dall'inizio alla fine: come ne ho visti a centinaia. 

Ma come, Pietro, e Goethe?!

A un certo punto di una vecchia discussione relativa a preferenze e gusti letterari, mi sono inventato -con un sovrappiù di retorica sfrontata: a conti fatti è un'invenzione da poco- una formula che trovo ancora efficace per la descrizione di quella fetta di pubblico attratta dalla frequentazione esclusiva con romanzi di grande successo, libri-del-momento, best-seller fatti a forma di best-seller sin dalla prima copia venduta. E insomma, la sto facendo troppo lunga, la formula è: Sono i libri che legge la gente che non legge libri. Dan Brown, Ken Follett, Stieg Larsson: eccetera.
Il che non significa che io disprezzi quel tipo di consumo o le persone che lo adottano: penso che in alcuni di quei casi ci possano essere elementi di valore e ricchezza narrativa. E non significa nemmeno che tutti quelli che leggono 'sta roba leggono solo 'sta roba: ma un bel pezzo di quelli sì. Non è il mio genere, banalmente: preferisco altra roba perché la ritengo più soddisfacente rispetto alla mia curiosità per le cose del mondo e più stimolante per i solchi della corteccia che ricopre il mio cervello stupidino.

I libri sono oggetti, prodotti di un mercato economico-culturale vasto e stratificato: non c'è niente di male a leggere solo quella roba. Ma proprio niente. Anche perché, a volte, dall'approccio alla lettura con autori di quel tipo scaturisce una più ampia, matura e consapevole passione per la lettura. La quantità di persone che ha scoperto la bellezza della lettura grazie a Stephen King è indubitalmente più alta di quella che lo ha fatto grazie a Tolstoj.

Sul Corriere di oggi, Pietro Citati ha scritto un articolo dai toni inconsolabili sull'involuzione qualitativa del mercato letterario, decorandolo di una quantità di rimpianti per il caro vecchio pubblico di una volta. Pietro Citati è probabilmente uno dei più famosi critici letterari di questo Paese: in quest'articolo, pare una settantacinquenne che dal panettiere lamenta la mancanza di valori nelle giovani generazioni:
Oggi la lettura tende a diventare una specie di orgia, dove ciò che conta è la volgarità dell'immaginazione, la banalità della trama e la mediocrità dello stile. Credo che sia molto meglio non leggere affatto, piuttosto che leggere Dan Brown, Giorgio Faletti e Paulo Coelho. Intanto, continua la scomparsa dei classici. Gli italiani non hanno mai letto Dickens e Balzac. Oggi, anche Kafka (che nel l970-80 era amatissimo) va a raggiungere Tolstoj e Borges nel vasto pozzo del dimenticatoio. Per fortuna, restano i poeti: o, almeno, una grande poetessa, Emily Dickinson.
Ora, a parte la presenza di dogmi cretini tipo "Credo che sia molto meglio non leggere affatto, piuttosto che leggere Dan Brown, Giorgio Faletti e Paulo Coelho". A parte quello.
Dickens e Balzac. 
Io me lo figuro come un cleptomane, Citati, che in coda alla cassa cerca di pensare ad altro, di contare a ritroso da 99 a 5 saltando 4 numeri alla volta, di ricordare le vacanze al mare da piccolo, le persone che frequentavano i bagni, le parigine che comprava al bar pur di non cascarci un'altra volta, ma non ce la fa. Non ce la fa a non soddisfare quel bisogno impetuso, urgente e senza tempo di citare due classici dell'Ottocento in un pezzo sul declino di certa sensibilità estetica delle umane lettere contemporanee. Dickens e Balzac. Non Ammaniti, non Tom Wolfe, non Safran Foer. Al repertorio nazionalpopolare di successi commerciali, Pietro Citati contrappone frontalmente, ma in modo schietto e orgogliosamente spontaneo, Dickens e Balzac. 
Mi è venuta una voglia di leggere Moccia che non vi dico.

martedì 6 marzo 2012

Scrivesse un elzeviro sulla superiorità degli ombretti in crema su quelli in polvere, ogni tanto

Antonio Scurati ha scritto una riflessione sulla figura di Caino e il suo rapporto con la letteratura. E siccome quando c'è da ragionare sulle lettere maiuscole è ancora uno molto bravo, ha scritto cose molte interessanti. Qui.
Nel frattempo ha inaugurato un progetto appassionante e avventuroso che richiede a una quantità di scrittori di stroncare impietosamente l'ultimo romanzo che hanno scritto. L'operazione gli è riuscita molto bene:
“E poi, se la vogliamo dir tutta, non si può essere anti-moderni, anti-umanisti, anti-occidentali e aver anche la pretesa di essere anti-fascisti (si vedano le dichiarazioni dell’autore in proposito). Guerra tra le razze, geopolitica della violenza, ritorno del servaggio, odio-anticinese, eugenetica e politiche demografiche. Questi i veleni che maneggia il romanzo. E di questi s’intossica. Alla fine scoprimmo che non esistono antidoti, solo veleni più lenti”, vi si legge. E’ l’unica riga condivisibile de La seconda mezzanotte. Perché qui il libro sta parlando di sé.