Sabato sera mi è capitato di discutere con un amico di un po' di cose diverse ma tutte relative a temi complessi, giganteschi, spigolosi. Stavamo condividendo qualche parere sulle scarse e panoramiche letture di studi antropologici fatte da entrambi, quando a un certo punto gli ho detto una cosa come: "Sono cose molto affascinanti, ma penso che ci sia un po' troppo relativismo culturale di sfondo." La mia affermazione è stata poi saggiamente corretta da un'amichetta che mi ha detto qualcosa come: "Sì, però il compito degli antropologi è osservare e studiare, non valutare." Era convinta di aver ragione e me l'ha dimostrato, convincendomi: ma non diteglielo, che altrimenti si arrabbia.
Ma insomma, da quella mia frase si è scatenata una serie di scambi di idee poste in contrapposizione molto frontale. E dato che mi sono accorto di pensare cose di cui non avevo una vera consapevolezza strutturata -mi succede spesso nelle discussioni: è una delle cose più belle che ci sia- provo a ritirare le fila del discorso. Perché le parole sono importanti, ma la rielaborazione di esse non è da meno.
Tanto per cominciare, buona parte dei miei criteri orientativi rispetto alle cose del mondo è imbevuta di illuminismo. Io vado matto per l'Illuminismo. E visto che "l'Illuminismo" non esiste, ma esistono invece diverse correnti interne a un movimento a sua volta dinamico e articolato, esplicito subito qualche declinazione in più: parlo dell'illuminismo ateo, riformista, repubblicano e democratico, razionalista, egualitario, cosmopolita, umanitario. Io riconosco un sacco di cose che credo buone e giuste in quest'ambito della storia del pensiero umano, e ritengo che soddisfino bisogni universali. Dite che mi sbaglio? Provate a convincermi, ve ne sarò molto grato.
In conseguenza logica delle mie idee, io penso che esistano diritti naturali e inalienabili che devono essere riconosciuti a qualsiasi essere umano, sempre e ovunque, in quanto essere umano. Parlo della libertà di pensiero e di parola e di stampa, della libertà di emancipazione dall'ignoranza, della libertà dalla tirannia e dalla schiavitù e dal fanatismo in qualsiasi sua forma. E mica è facile, mettere in piedi un mondo fatto così. Non c'è nulla di più difficile, invece. Ma si fa dove si può, dove si riesce, dove si deve, un pezzo alla volta. E si fa perché è giusto, perché non esiste soluzione razionale e argomentata che possa giustificare un'offesa a diritti e libertà in ragione di un contesto nazionale e/o culturale. Un uomo che picchia la moglie commette la stessa offesa ai diritti umani sia che la picchi al 100 Upper Side di Manhattan sia che la picchi in un sobborgo di Shanghai o in una baraccopoli ugandese. Si può contestualizzare, naturalmente, si può e si deve esaminare ogni singola circostanza, analizzarla sotto molteplici punti di vista con un procedimento logico e fondato su evidenze empiriche. Ma dal punto di vista etico non si può definire più o meno grave una violazione dei diritti umani in ragione di un dato culturale. Una violazione è una violazione, un diritto è un diritto e una vita vale una vita: tutti i giorni, in tutte le parti del mondo. L'argomento che poi mi fa imbestialire -paradossalmente cavalcato sia da interlocutori che si dichiarano "di sinistra" o "di sinistra radicale" che da conservatori retrogradi ributtanti come Daniala Santanché e Mario Borghezio- è quello appunto relativista, soprattutto nel momento in cui afferma che qualsiasi costume e comportamento è giustificato e accettabile perché inserito in un quadro culturale specifico, che, in quanto tale, ha una sua valenza imprescindibile. Il principio è benintenzionato, e può anche suonare come una cosa equilibrata, egualitaria e open-minded. Ma ha implicazioni invece discutibili, se non violente e brutali. L'idea che qualsiasi cultura abbia valore in quanto cultura non fa i conti con il problema dei diritti e delle libertà, appunto. C'è una differenza sostanziale fra pluralismo e relativismo culturale, da questo punto di vista: accettare più di un'idea e più di uno stile di vita e più di un punto di vista è un'inclinazione ovviamente benvenuta, ma non può essere messa sullo stesso piano -in fin dei conti dogmatico- di accettare qualsiasi idea, stile di vita e punto di vista.
E a questo punto non può che emergere la citazione della pratica dell'infibulazione. Come la mettiamo, con l'infibulazione? La accogliamo come un costume culturale e di conseguenza la accettiamo perché siamo tanto rispettosi delle culture diverse dalle nostre? E se qualsiasi cultura è meritevole di rispetto, in che modo traduciamo questo principio a livello legislativo? Chi siamo noi per eccetera eccetera? E nel frattempo siamo in pace col fatto che milioni di donne finiscano vittima di una violazione crudelissima dei loro diritti personali?
C'è un repertorio di affermazioni quali "rispettare tutte le culture" e "rispettare tutte le idee" che mentre dal punto di vista linguistico hanno una loro efficacia e segnalano una quantità di intenzioni tolleranti, dal punto di vista pratico si annettono a conseguenze rovinose e drammatiche. Da quando abbiamo confuso il rispetto della persona con il rispetto delle sue idee? Per quale motivo dovremmo rispettare le idee di una persona -o di un costume culturale- che ritiene giusto e necessario mutilare l'apparato genitale di una donna con la pretesa folle e agghiacciante di preservarne la purezza? L'infibulazione è un esempio che mette tutti d'accordo: ma se ne possono fare a decine, e diversi fra loro. Dal diritto allo studio (Sì, le bambine indiane non vengono a scuola. Però cosa vuoi dire ai genitori, è la loro cultura) al cannibalismo, dalla lapidazione delle adultere (Lo fanno per motivi religiosi, chi siamo noi per?) allo stupro in famiglia.
Ammettiamo e concediamo che questi e altri costumi barbarici facciano parte "della loro cultura": per quale motivo dovremmo considerare il fenomeno come una scusante e non come un'aggravante? Per quale motivo non dovremmo preoccuparci del fatto che certune pratiche culturali sono irrispettose dei diritti umani e delle libertà personali? Per quale motivo abbiamo a cuore diritti che in Italia coltiviamo e pratichiamo e difendiamo quotidianamente ma che al tempo stesso giudichiamo incompatibili o inapplicabili o estranei a tradizioni e "culture" distanti dalle nostre? Condanniamo Emilio perché dà un cazzotto a Giuliana, e giustifichiamo Ahmed perché lo dà a Nisrita? E in che modo questo metro doppio non fa di noi persone malevole, superficiali o addirittura razziste?
A questo punto si potrebbe aprire la pagina dell'interventismo e della neutralità. Come ci si comporta quando in un Paese sovrano si verificano violazioni gravi dei diritti umani come pulizie etniche, persecuzioni o massacri di civili? Durante il gennaio dell'anno scorso, Gheddafi tirava bombe in testa a sudditi che protestavano contro il suo regime autoritario e repressivo, minacciando di farne carne da macello per mezzo dell'esercito: che si fa? Se siamo d'accordo nel qualificare le decisioni di Gheddafi come ingiustizie, che facciamo? Stiamo a guardare, appellandoci alla neutralità, perché
"Chi siamo noi?
" e rispettiamo un principio politologico di derivazione ottocentesca come quello di non ingerenza dell'altrui sovranità nazionale? Oppure ci facciamo carico della tutela di principi di libertà e diritti umani -quello di vivere, tipo- intervenendo -anche con la forza: anche con la forza militare- per arginare e raddrizzare situazioni in cui si configura il rischio di emergenze umanitarie?
Tema un'altra volta articolato e controverso. Intanto me la cavo citando
le parole di uno che ammiro parecchio, che sa il fatto suo e che di mestiere fa il Presidente degli Stati Uniti:
For make no mistake: Evil does exist in the world. A nonviolent movement could not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot convince Al Qaeda’s leaders to lay down their arms. To say that force is sometimes necessary is not a call to cynicism — it is a recognition of history, the imperfections of man, and the limits of reason.”
Ps: il motivo per cui vado matto per gli illuministi si condensa nelle ultime tre parole di Obama. Niente che si sia inventato lui, è una cosa che l'umanità ha imparato da Immanuel Kant: mettiamo al centro della nostra visione del mondo e delle nostre vite l'esercizio della ragione, ne facciamo un fondamento della nostra modalità di convivenza, dei nostri procedimenti di conoscenza e di progresso scientifico ma al tempo stesso, esercitandola, riconosciamo che ha dei limiti. Siamo proprio razionali.