lunedì 8 dicembre 2008

Stop that train: I'm leaving. I don't mind

Una delle cose che più mi aveva colpito qualche mese fa, quando montavano i casini Tibet-Cina-Olimpiadi, è stata la notizia della costruzione della linea ferroviaria Pechino-Lhasa. Un'opera pazzesca, una ferrovia lunga quasi 2000 Km (4000 se si conta la distanza da Pechino e non da Xining), per di più messa in piedi ad altitudini record (4000 m) e su terreni piuttosto proibitivi dal punto di vista edilizio, come il permafrost. Una roba da pazzi veri, ma nel senso buono.
Epperò le implicazioni politiche e il successivo fiume di polemiche hanno denunciato il graffio imperialistico cinese, volto a controllare la terra del Dalai Lama, sollecitando l'emigrazione dei tibetani nel resto del Paese e facilitando la presenza dell'esercito nazionale nell'altopiano.
Mi aveva fatto pensare, sta cosa, nella misura in cui spiega una cosa vecchia e ancora attuale: quanto il potere politico sia capace di confondersi col più tradizionale, splendente e positivo simbolo del progresso tecnologico dai tempi della rivoluzione industriale per farci i comodi suoi e gli abusi altrui.

Tutta sta menata sul treno per dire che è da poco uscito un libro, about it.

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