venerdì 31 dicembre 2010

Boiate pazzesche

Qualche settimana fa, mi è capitato di discutere di Marco Travaglio con un ragazzo che conosco a malapena. Lui mi è sembrato uno di quegli estimatori pericolosamente acritici del giornalista. Uno di quelli che a un certo punto dicono: "Travaglio riporta solo i fatti."
Sensazione corroborata anche dal suo tentativo -naturalmente fallito- di cercare di convincermi che la vicenda dell'attentato al Cav, il 13-12-09, fosse "tutto un complotto."
(Non so se Travaglio abbia mai sostenuto una posizione simile. Magari no. Magari sì. Non è da escludere. Però non so, ripeto. Ma individuo nei suoi fan una solida tendenza a convincersi di queste teorie. Non so quanto sia forte, ma una relazione fra i due insiemi c'è.)
E allora questo ragazzo continuava a ripetermi che lui non voleva credere al complotto, ma che comunque nella versione ufficiale dei fatti c'erano "delle incongruenze."
Io mi ci sono anche messo, a spiegargli il mio naturalmente ingenuo e sprovveduto punto di vista. E cioè che "delle incongruenze" si possono individuare in qualsiasi filmato girato nel corso della storia dell'umanità: i punti della discussione sono l'inclinazione che si dimostra nel cercarle, il tipo di risposte dietro cui ci si barrica e la riluttanza nel cercare informazioni alternative a quelle che si reputano -conformisticamente, e qui c'è la capriola- controcorrente.
Qui, per esempio, c'è un post documentato e trasparente che demolisce ogni elemento della teoria complottista.
Ma con i complottisti, spesso, il gioco è a perdere: secondo la logica dissennata che molti di loro adottano, la prova definitiva delle loro teorie è l'assenza di prove. E allora mambo, e gli asini volano.

Comunque, dicevo, lui è uno di quelli che Travaglio ha la verità in tasca.
Io sono uno di quelli che Francesco Costa è un bravo blogger, e in questo post riporta una critica interessante alle -ops!- incongruenze del suo metodo giornalistico.

lunedì 27 dicembre 2010

And it's never gonna be the same

E' un periodo che, in dissennato sfregio alle mie disponibilità economiche, mi sono preso bene ad acquistare cd.
O meglio, mi sono riconciliato con l'idea di spendere soldi per ascoltare musica. Quindi progetto di comprare della musica con maggiore costanza di quella che ho avuto negli ultimi anni. Anche perchè la crisi del settore discografico ha prodotto un abbassamento dei prezzi molto invitante, soprattutto per quanto riguarda classiconi del passato.
L'altro giorno, stavo in un negozione di dischi, e a un certo punto ho visto (What's the story) Mornig glory?
L'ho preso in mano. Ho guardato il prezzo. Sette euro e novanta. Allora ho pensato al brit-pop, alla mia passione per l'Inghilterra e agli anni '90. Dopo essere uscito dal mio videoclip mentale, e nonostante la mia vecchia antipatia per gli Oasis (sempre stato un fan dei Blur) mi sono detto che non avevo motivi, per non possedere quel disco.
E allora ho fatto quello che hanno fatto circa ventidue milioni di persone prima di me, in questo mondo. Cioè ho comprato (What's the story) Morning Glory?
Al di là delle hit, il disco è molto bello. Rimango dell'idea che gli Oasis avessero suoni splendidi, agenti di marketing molto capaci e ritornelli altrettanto appiccicosi.
Avevano tuttavia poche idee, e la loro rapida curva discendente dal mondo musicale, unita al loro stabile ingresso nel mondo mediatico dei pettegolezzi e dei rumors, ne sono una buona dimostrazione.
Ma se si cercano musica di buona sostanza e melodie efficaci da canticchiare tutto il giorno, qui c'è il pacchetto completo.
E mi piace da matti la prima canzone, di (What's the story) Morning Glory?


venerdì 24 dicembre 2010

Christmas with the mine

Beh vabbè, io volevo scrivere una cosa su uno dei film a cui più sono affezionato. E' uscita sta roba qui. Prendetela un po' come vi pare.

Io non sono uno di quelli del natale. E non sono uno di quelli dei regali.
Mi piace il natale, un po' (soprattutto quando faccio lo stupidino fino a tardi con i miei amichetti); mi piace fare e ricevere regali, un po'.
Ma non vado matto. Dopo l'immacolata, non conto i giorni che mancano al natale. Prima dell'immacolata, non mi porto avanti facendo i regali. E se non mi fate regali, pazienza.
Chi lo sa perché. Magari sono un tipo anaffettivo. Che è un altro modo di dire che da qualche parte, dentro me, alberga una personalità decisamente stronza.
Un po' perché sono un rompipalle, senz'altro. E il gusto dell'essere rompipalle cresce proporzionalmente all'ufficialità del contesto cui rompi le palle: e più ufficiale del natale c'è ben poco.
E un po' perché sono cresciuto così, credo. Nemmeno in casa mia, ci sono esponenti portatori sani dell'entusiasmo natalizio.
L'unico regalo di natale che ricordo molto bene è il walkman ricevuto intorno ai 6 o 7 anni: non mi sembrava vero poter avere con me la musica di quel figo stratosferico (avevo 6 o 7 anni) di Jovanotti (Sei come la mia moto), poterla ascoltare ad alto volume e nel frattempo infastidire una mazza di nessuno. Ho davvero un ricordo molto vivo di quella sorpresa. Soprattutto, credo, perché ho scoperto cos'è un walkman proprio nel momento in cui l'ho ricevuto in dono: alla meraviglia per l'invenzione, si aggiungeva la gioia per il possesso.
Poi molti altri regali li ricordo, certo. Difficile dimenticare i primi videogame tipo Golden Axe e Robocop. E difficile dimenticare certi orrendi calzoni di velluto. (Poi i calzoni di velluto mi sono tornati simpatici, però)
Facile, poi, ricordare il periodo in cui dal regalo convenzionale sono passato al regalo concettuale, chiedendo di sostituire il pensiero con una somma di denaro. Quella richiesta prontamente soddisfatta dai miei, ora che ci penso, è stata la fine del mio natale personale. E per certi versi dell'infanzia in senso lato.
Ma comunque, un po' per motivi personali e un po' per motivi famigliari, io non sono uno di quelli del natale.
Mi rendo tuttavia conto che il natale sia un fenomeno diffuso e rilevante.
Ultimamente, mi piace pensare al natale come un grosso e condiviso racconto collettivo in cui si rovesciano numerosi pezzi delle nostre vite, e numerose e decisive relazioni attorno a cui costruiamo le nostre vite: persone a cui teniamo, persone con cui abbiamo trascorso del tempo, e persone con cui vorremmo passare del tempo in futuro.
Un po' come i romanzi classici, il natale è un racconto che mescola il personale e il collettivo, l'individuo e l'ambiente. I nostri desideri rispetto al modo in cui trascorreremo il natale e il modo in cui effettivamente lo trascorriamo, messi insieme, dicono molto di ciascuno di noi.
Quindi funziona, come racconto.
Intanto perché il natale è nato, come racconto. E la sua storia sta dentro una storia più grande che ha molto inciso sull'evoluzione della letteratura (sì, anche su quella del mondo in generale), attribuendo -in estremissima sintesissima- a personaggi e contesti umili la possibilità di frequentare nobili e sagge condotte morali prima, e di accedere a verità trascendenti poi -con il solo scopo di poterle contemplare.
Il lieto fine, inteso come soluzione definitiva a un intreccio precedentemente compromesso da agenti esterni, è una roba dei vangeli. (E qui entrerebbe in gioco la storia del mondo, ma adesso non importa, appunto. E se pure importasse, io non avrei cose originali e notevoli da dire, in proposito.)
Inoltre, il natale funziona molto, come racconto, perché a sua volta è entrato in una quantità spropositata di racconti: non sto nemmeno ad argomentare.
Infine, funziona molto, come racconto, perché se c'è una roba gustosa da fare durante il natale è stravaccarsi sul divano e assistere ai racconti -quasi sempre si tratta di film passati in Tv- che ne perpetuano l'ufficialità. E' il concetto di comfort a livelli impennati, e difficilmente eguagliabili: pancia piena, buon umore, belle persone attorno, storie che finiscono bene. Storie, soprattutto, di cui già si conosce il lieto fine.
E stasera alle 21:10 su Italia1, va in onda Trading places, cioè Una poltrona per due.
E Una poltrona per due è la cosa che più mi avvicina a essere uno di quelli del natale. L'ho guardato una quantità sconsiderata di volte, sempre a natale e quasi sempre con i miei o almeno con mio fratello.
E poi c'è dentro tutto: gli anziani sono insieme ridicoli e terrificanti, i comprimari seguono un'evoluzione coerente ai fatti narrati e i due protagonisti sono investiti da una serie di vicende che stravolge le loro vite e alla cui comprensione, inizialmente, sono sottratti. Entrambi, inoltre, devono misurare la loro intraprendenza personale con i comportamenti del prossimo, e le loro capacità individuali con le care vecchie dinamiche (eh, sì: ho scritto dinamiche) ambientali.
Ed è tutto leggero: verosimile, ma sgangherato.
E la faccenda finisce come deve finire.
E io vado matto, per Una poltrona per due.
E chissà come andranno quest'inverno, le azioni del succo d'arancia congelato.

giovedì 23 dicembre 2010

Proprio come diceva mia mamma

Poi ognuno ha le sue, e ci mancherebbe. Ma per chi, come me, è preso solo limitatamente dal fibrillo entusiasta del natale, questa è la canzone perfetta.
Perchè ironizza in modo intelligente e serio -quindi senza prendersi sul serio- su piccoli e grandi elementi della celebrazione che più si presta a retoriche svenevoli e tradizioni annacquate.
Panettone is on the table, but it is another one. Infatti è quello senza canditi.

mercoledì 22 dicembre 2010

Hey, Charlie

Voi prendete una canzone.
Voi prendete un blues cantato da una voce inconfondibile, profonda. Una voce che sembri venir su dal fegato. Metteteci sotto un pianoforte, e nient'altro. A questo punto, quello che vi serve, visto che volete scrivere una canzone natalizia, è un bel testo.
Costruite una bella cornice in cui inserire il racconto. Per esempio, una prostituta di Minneapolis che scrive a Charlie, evidentemente un suo amico. Fatele raccontare un mucchio di belle notizie, a questa prostituta. Per esempio, fatele dire che è incinta, che vive in un bell'appartamento sopra una libreria, che ha smesso di drogarsi e di bere. Il suo ragazzo suona il trombone, e lavora alla stazione. La ama molto, anche se il figlio non è suo. Le ha regalato un anello, e la porta fuori a ballare ogni sabato sera.
Perfetto: la sostanza c'è. Un'emarginata sopravvissuta a esperienze di sbandi e sconsideratezze: ora ha rimesso in piedi la sua vita, e aggiorna un suo conoscente dei grandi progressi ottenuti.
Poi vabbé, qualche brutta notizia bisogna mettercela, altrimenti si rischiano melensaggini eccessive.
E allora questa qui è andata a trovare i suoi vecchi giri di conoscenze in Nebraska, e chi non era morto stava in galera. D'altronde, non tutti ce la fanno, a sopravvivere agli errori di gioventù. Però dai, lei ce l'ha fatta.
Ora, bisogna risollevare gli umori. E lei pensa di essere felice per la prima volta dopo l'incidente, e rimpiange la quantità di denaro buttata via in droga, gli anni scorsi.


Tutto potrebbe finire così. Se non fosse per quel vecchio trucco del narratore inaffidabile. Quel trucco che concentra nel finale un pezzo decisivo del racconto, che è meraviglioso e disperato insieme: Hey Charlie, cristo santo. Vuoi sapere la verità? Non ho un marito, non suona il trombone e mi servono soldi per pagare l'avvocato. E Charlie, forse esco con la condizionale, a San Valentino.

And if you're in the Crown tonight, have a drink on me. But go easy. Step lightly. Stay free.

Otto anni fa oggi, se ne andava uno dei più grandi di sempre.


martedì 21 dicembre 2010

"Ha cominciato lui!"

Al mio amico Sufjan Stevens piace molto, il natale. Qualche anno fa, ci ha scritto un disco triplo. Quarantuno brani: buona parte rivisitazioni di canti tradizionali, inni religiosi eccetera. Altra buona parte cose sue, inedite.
A me piace molto Put the lights on a tree, che avevo già linkato due anni fa.
E poi mi piace molto, forse per il suo titolo così stridente con la retorica dello spirito natalizio, Did I make you cry on Christmas day? (Well, you deserved it!)
E la cosa strana è che nel pezzo non c'è nessun riferimento musicale all'orgoglio rancoroso esibito nel titolo: la musica scivola via con un suo dolce andamento tristanzuolo e i soliti ricami dei cori femminili in accompagnamento. E la riascolti un 4-5 volte, prima di fare altro.


Speriamo che quei due abbiano fatto pace, però.

sabato 18 dicembre 2010

Samurai e aperture demenziali

Fra i miei pochi lettori, ci sarà senz'altro qualcuno che storcerà il naso. Perché il pezzo scritto qui sotto è di Filippo Facci. E Filippo Facci non è uno che sta simpatico, diciamo.
Però le cose hanno un valore indipendente dalla persona che le dice (non fate quella faccia), e penso che in questo caso Facci abbia detto cose condivisibili.
Per esempio:
Ci sono opinionisti anche savi e moderati, in questi giorni, che di fronte alle scarcerazioni degli studenti e dei vandali adesso si scandalizzano e invocano «buon senso», dicono cioè che quanto accaduto «non può essere valutato solo col freddo bilancino del codice penale»: e allora con che cosa, di grazia? Che cos’è questo buon senso, qualcosa che va oltre la legge o permette di applicarla come ci pare? Che fai, prendi un 18enne incensurato e lo tieni genericamente in galera perché la gente è incazzata? È questa la «fermezza»? O dovremmo improvvisare delle leggi speciali e disgraziate, come quando si decise che in Italia c’era l’emergenza stupri (e gli stupri erano in calo) e allora s’improvvisò una norma anti-costituzionale che rendeva obbligatorio il carcere preventivo? I provvedimenti «esemplari» lasciateli invocare ai politici, a chi spia soltanto dove tira il vento: i magistrati sono tenuti a differenziare e a dare i domiciliari in un caso, chiedere l’obbligo di firma in qualche altro, vietare la dimora in città in altri ancora, liberare – in attesa di processo, beninteso – quando la legge lo prevede. È quello che è successo.
E poi questo. E vorrei far notare la rarità di un commentatore che definisce "demenziale" l'apertura del giornale per cui scrive:
Non c’è stata nessuna «generalizzata scarcerazione», come ha scritto il Corriere della Sera di ieri, e mi spiace dire che anche l’apertura di Libero, ieri, era demenziale: «Hanno fatto venti milioni di danni e pestato 50 agenti: sono già fuori». Chi? Chi ha fatto i 20 milioni di danni, chi ha pestato 50 agenti? I 22 studenti totali fermati l’altro giorno, ragazzine comprese? E che erano, samurai? [...]
Non dovrei precisarlo, ma io sto coi poliziotti: voglio che siano pagati di più, voglio che non siano mandati allo sbaraglio, che abbiano attrezzature adeguate, che non debbano affrontare criminali organizzati come se fossero cassintegrati della Fiat; ma voglio, nondimeno, che siano perseguiti se pestano e scalciano inutilmente un ragazzo riverso per terra, perché chi sorveglia il rispetto delle regole è tenuto a rispettarle più degli altri.
Chi sorveglia il rispetto delle regole è tenuto a rispettarle più degli altri. Buona. Conviene segnarsela.

giovedì 16 dicembre 2010

Of friends you might have had

E' una banale e schematica distinzione, quella fra i grandi musicisti (gm) e i piccoli grandi musicisti (pgm). E' banale e schematica, ma come tutte le distinzioni è utile per farsi un'idea generale su qualcosa.
E quindi. I gm stanno sul palcoscenico, sulle T-shirt, sulle copertine dei libri che raccolgono i 358704 dischi senza cui non si può vivere. Stanno nella storia della musica rock con la stessa facilità in cui stanno nella storia del costume, o nella storia collettiva di una generazione. Sono icone. Possono essere gm sbanfoni o umili, indipendenti o modaioli, guelfi o ghibellini.
Però ci sono, fanno parte delle nostre vite, li conosciamo.
E poi c'è la cosca perdente, dal profilo basso: quella dei pgm. I pgm non sono famosi. Sono di culto. Stanno sul palcoscenico, ma non quello di uno stadio. Se stanno sulle T-shirt, in pochi se ne accorgono.
Sulle enciclopedie del rock ci sono, eccome, ma non guadagnano la copertina. Guadagnano però, e qui sta il punto, numerose stelline in recensione e numerosi apprezzamenti critici.
I pgm non sono quasi mai musicisti importanti per la vita di una generazione. Sono musicisti importanti per la vita di manciate di impallinati, e altrettanti storici. Sono musicisti (o gruppi) che hanno venduto poco, ma che nella loro scena rappresentano un punto di riferimento immancabile per chiunque sia venuto dopo di loro. Randy Newman, per esempio. O i Faust, o Captain Beefheart.
Per chi è appassionato di musica punk e/o rock alternativo degli anni '90, il nome più facile da fare è quello degli Husker Du.
Gli Husker Du erano di Minneapolis, e hanno fatto parecchie cose, negli anni '80: dischi hardcore, dischi punk, dischi pop-rock, e Zen Arcade. Zen Arcade è uscito nel 1984, è il loro disco più importante, e viene spesso citato come precursore della ballotta di Seattle da una parte, e del rock underground dall'altra. E per dire del grado di elaborazione del lavoro, ci sono dentro pure un po' di canzoni psichedeliche.
E' un disco molto arrabbiato e introspettivo, che racconta la crescita individuale di un ragazzo e il suo cammino verso l'indipendenza personale. Arrabbiato, introspettivo: due forme di sensibilità che un gruppo come i Nirvana ha combinato spesso e con grande efficacia, per fare un esempio.
Un mio professore del liceo fa parte della manciata di impallinati per la musica di questa band, e me ne ha trasmesso la conoscenza. Diceva di aver letto un'intervista in cui BJ Armstrong li citava come maestri nella formulazione degli accordi di chitarra. Sono un gruppo di quelli così: li conoscono bene in tremila, ma tutti tremila hanno messo su una band influenzata quello che facevano loro.
E oggi ho letto un lungo articolo scritto su di loro in occasione della pubblicazione di un libro sulla loro storia.

Visto che se c'è da rompere le palle non mi tiro indietro, a me Zen Arcade non piace moltissimo. Alcune canzoni sì, altre meno. Mi piace molto, invece, un loro disco decisamente più convenzionale e pettinato: Warehouse: songs and stories.
Warehouse: songs and stories comincia con questa canzone, in cui c'è un verso che mi sembra semplicemente perfetto: "Avere aspettative significa che pensi davvero di sapere cosa sta per accadere, e non lo sai."


mercoledì 1 dicembre 2010

Se non cambierà, sbobba dura sarà

C'è che sono in università a studiare (certo: studiare Hitchcock è sempre meglio che lavorare) e già che ci sono a discutere (per quanto sia possibile farlo su FB) della riforma Gelmini, approvata ieri dalla Camera.
In tutto ciò, ho letto il parere scritto da Michele Salvati a proposito, e mi sembra interessante. Non lo condivido del tutto. Mi sembra che chi cerca (o cerchi? Ci va il congiuntivo? Eh?) di evidenziare le cose buone (e ci sono) di questa riforma, trascuri eccessivamente un vizio strutturale e storico che nemmeno questa riforma ripara: la carenza di fondi destinati all'istruzione. (Eppoi ci sarebbe la mancata abolizione del valore legale del titolo di studio)
Comunque, Salvati comincia l'articolo con una breve e sacrosanta premessa, che purtroppo rischia di suscitare accuse di banalità retorica, le quali non farebbero che confermarne la validità.
Perché è proprio questo il punto: sembra retorica perchè è sempre razionale, adeguata, giusta.
Come sarebbe facile la vita se si potesse sempre seguire il precetto evangelico: la tua parola sia «sì/no». Se di un comportamento si potesse sempre dire: giusto/sbagliato. Se di una legge si potesse sempre affermare: da approvare/da respingere. Le cose, purtroppo, sono quasi sempre più complicate di così.
Poi continua, entra nel merito e dice che secondo lui la legge non è complessivamente buona, ma anche che si augura venga approvata definitivamente in Parlamento. E' almeno un punto di partenza, dice, è qualcosa su cui lavorare, è qualcosa che si può migliorare e quindi è meglio che niente. E' meglio di adesso, rispetto al futuro.
E il suo articolo mi ha fatto un po' pensare al riformismo, al cambiamento delle cose, ai piccoli compromessi, all'accettare il brodino oggi per la carnina domani e al saper pensare a lungo termine.
E quasi mi convince, maledizione.
E allora torno a studiare.
Il resto è qui, ma l'ho trovato qui.