giovedì 31 maggio 2012

Una cosa veloce sul terremoto

La Terra si fa i cazzi suoi, e a volte se li fa secondo modalità e tempistiche che travolgono la vita delle specie viventi che la abitano. Non c'è niente di eccezionale o di incredibile. E certo, quando c'è un terremoto la gente muore. Ma fermarsi a questa considerazione non basta. Resta da capire se e quanto fossero evitabili le morti, perché lo fossero e perché non lo siano state. 
Sulle implicazioni economiche e politiche della vicenda, Gian Antonio Stella ha scritto e ripetuto cose che condivido:
Molto più gravi sono le responsabilità di chi negli anni si è opposto a ogni irrigidimento (norme più facili ma rigide) sulla sicurezza. Nella convinzione che non valesse la pena di infastidire i cittadini e le aziende, obbligati a spendere di più senza essere mai stati informati dei rischi che correvano. Un errore suicida. Per decenni, finché la natura non tornava a ricordare con nuove distruzioni come le catastrofi del passato possano ripetersi, la grande maggioranza degli amministratori nazionali e locali ha preferito costantemente derubricare i rischi sismici, geologici, ambientali di questo e quel territorio piuttosto che affrontare la realtà. C’è un saggio («La classificazione e la normativa sismica italiana dal 1909 al 1984» di autori vari) che spiega tutto: la mappa delle aree pericolose è stata composta di scossa in scossa. Con l’aggiunta via via di Messina e Reggio nel 1908, di Avezzano e della Marsica nel 1915, del Riminese nel 1916, della Val Tiberina nel 1917, del Mugello nel 1919, della Garfagnana nel 1920 e avanti così... Come se lo Stato si rassegnasse a riconoscere man mano, quando era ormai impossibile continuare a negarlo, ciò che non solo gli studiosi ma i vecchi abitanti dei luoghi sapevano. E questo processo, con il rattoppo continuo delle mappe delle zone a rischio, è proseguito fino ai nostri giorni. Senza che mai venisse definita una mappa finale che non fosse una pura accumulazione di variegate mappe precedenti. È una seccatura, finché non crollano il campanile, le case e i capannoni, accettare la definizione di area sismica più o meno esposta al pericolo.

"I'm never going to see a Mer-man"

Dopo aver girato un importante film d'exploitation (L'ultima casa a sinistra) e aver messo in piedi la fortunata saga di Nightmare, nel 1996 Wes Craven fece uno di quei film per cui gli appassionati di Horror non hanno ancora capito se devono ringraziarlo per aver segnalato una certa schematicità dei meccanismi di funzionamento del genere o maledirlo da qui all'eternità per aver innescato il successivo spostamento del genere medesimo verso ambiti storti e farlocchi come il Torture Porn (i vari Saw, Hostel eccetera). Nel caso ve lo foste chiesti e la cosa v'interessi, io sono un fan del primo Argento, di Carpenter e di Raimi: non credo nell'inferno, ma se ci credessi vorrei che Craven ci finisse devastato dalla visione eterna e ininterrotta di questa puntata di Settimo Cielo
Ma insomma, Scream era un Horror che parlava degli Horror in modo esibito, autoreferenziale, con il ditino puntato e la mano alzata per rispondere alle domande dell'insegnante: una metapippa senz'altro acuta ma molto -troppo- compiaciuta delle sue capriole narrative e della sua autoreferenzialità. Chi lo difende sostiene che si tratti di un omaggio al genere, ma dagli omaggi dovrebbe trapelare una passione e una gratitudine che io in Scream non colgo minimamente.
Coi generi funziona così, a volte: quando sono inariditi dal manierismo e dai canoni convenzionali, quando la loro fruizione si svuota di significato o quando più banalmente le cose sono cambiate, si produce un momento di parodia farsesca e giocosa dei loro archetipi fondanti. C'è stata la Batracomiomachia per l'epica classica, L'Orlando furioso per l'epica cavalleresca medievale, c'è stato Scream per il genere Horror del cinema contemporaneo. 
Messa così è un po' ardita e forse fuori luogo, ma venitemi incontro: la sostanza è quella; e il problema di Scream è che Ariosto non solo conosceva perfettamente le canzoni di gesta che intendeva perculare, ma è stato anche capace di arricchire la sua opera formulando nuovi modelli letterari legati alla figura dell'eroe, nobilitando la frammentazione dell'impianto narrativo tramite l'orchestrazione di coincidenze e accidenti sincronizzati, mettendo in scena vicende sentimentali appassionanti e senz'altro più realistiche di certe derive angelicate dell'amor cortese, esprimendo una quantità di riferimenti alle piccinerie della vita di corte che tanto detestava ma con cui doveva convivere. Quindi ben venga la metanarrazione, ma se all'idea di partenza non aggiungi un grammo sei solo il secchione in prima fila.
Joss Whedon è nella stessa classe di Craven, ed è da poco uscito con The Avengers e Quella casa nel bosco. Ho visto Quella casa nel bosco due sere fa, e l'ho trovato una roba divertentissima e spaventosa. Riprende in mano tutto il procedimento meta di Scream, ma lo rinforza con una cornice esterna che ha una funzione comica straordinaria ed è in grado nel frattempo di non neutralizzare i momenti di paiuia dura che ci sono dentro la cornice. Grazie a quest'idea decisiva, Whedon è riuscito dove Craven ha inteso ma poi fallito: testimoniare l'amore -personale, prima ancora che professionale- per il genere senza limitarsi al giochino ozioso e smaccato. Difficile dire di più senza rovinare la visione: io pensavo di andare a vedere un gingillone come altri cento, e invece ho visto un Teen-Horror onesto ed efficace che fa ammazzare dal ridere.

mercoledì 30 maggio 2012

"Il fatto non sussiste"

Qualche anno fa, dopo aver letto e condiviso i primi dubbi sulla credibilità delle accuse rivolte alle maestre di Rignano, mi sono letto un po' di cose relative a casi di psicosi collettiva scatenati da una quantità di elementi analoghi come: indagini giudiziarie approssimative e superficiali, pessimo lavoro giornalistico sconfinante nella persecuzione mediatica, funzione di numerose famiglie coinvolte nel ruolo di canali amplificatori dell'isteria e testimonianze completamente inventate da parte di un gruppo anche abbastanza nutrito di bambini piccoli. C'è il caso McMartin, per esempio, che ha anche avuto una sua rappresentazione cinematografica molto interessante. Quello che deprime e che sconforta è prendere atto del vortice in cui vengono schiantate le vite di tutti i protagonisti in conseguenza di un fenomeno che non si è verificato. Non c'è niente di buono, in queste storie. Ci sono vite rovinate, dappertutto: rovinate le vite degli insegnanti, compromesse le vite dei genitori, devastate le vite dei bambini. Come se non bastasse, la storia orrenda di Rignano sembra essersi conclusa e invece non lo ha fatto: e Leonardo ci ha scritto un post molto bello. Si chiude così:
Sono ancora profondamente incazzato per gli innocenti che si sono fatti cinque anni di processo, per i bambini convinti di essere stati abusati, per i loro genitori che se ne sono convinti e che li hanno aiutati a convincersi; mi vergogno di vivere in un paese dove processi del genere si allungano per cinque anni, e i blog si sequestrano per un sospetto. L'incubo per me non finisce qui, non credo che debba finir qui per nessuno.

domenica 27 maggio 2012

"Like Mother Teresa with first strike capabilities" (cit.)

Sabato sera mi è capitato di discutere con un amico di un po' di cose diverse ma tutte relative a temi complessi, giganteschi, spigolosi. Stavamo condividendo qualche parere sulle scarse e panoramiche letture di studi antropologici fatte da entrambi, quando a un certo punto gli ho detto una cosa come: "Sono cose molto affascinanti, ma penso che ci sia un po' troppo relativismo culturale di sfondo." La mia affermazione è stata poi saggiamente corretta da un'amichetta che mi ha detto qualcosa come: "Sì, però il compito degli antropologi è osservare e studiare, non valutare." Era convinta di aver ragione e me l'ha dimostrato, convincendomi: ma non diteglielo, che altrimenti si arrabbia.
Ma insomma, da quella mia frase si è scatenata una serie di scambi di idee poste in contrapposizione molto frontale. E dato che mi sono accorto di pensare cose di cui non avevo una vera consapevolezza strutturata -mi succede spesso nelle discussioni: è una delle cose più belle che ci sia- provo a ritirare le fila del discorso. Perché le parole sono importanti, ma la rielaborazione di esse non è da meno.
Tanto per cominciare, buona parte dei miei criteri orientativi rispetto alle cose del mondo è imbevuta di illuminismo. Io vado matto per l'Illuminismo. E visto che "l'Illuminismo" non esiste, ma esistono invece diverse correnti interne a un movimento a sua volta dinamico e articolato, esplicito subito qualche declinazione in più: parlo dell'illuminismo ateo, riformista, repubblicano e democratico, razionalista, egualitario, cosmopolita, umanitario. Io riconosco un sacco di cose che credo buone e giuste in quest'ambito della storia del pensiero umano, e ritengo che soddisfino bisogni universali. Dite che mi sbaglio? Provate a convincermi, ve ne sarò molto grato.
In conseguenza logica delle mie idee, io penso che esistano diritti naturali e inalienabili che devono essere riconosciuti a qualsiasi essere umano, sempre e ovunque, in quanto essere umano. Parlo della libertà di pensiero e di parola e di stampa, della libertà di emancipazione dall'ignoranza, della libertà dalla tirannia e dalla schiavitù e dal fanatismo in qualsiasi sua forma. E mica è facile, mettere in piedi un mondo fatto così. Non c'è nulla di più difficile, invece. Ma si fa dove si può, dove si riesce, dove si deve, un pezzo alla volta. E si fa perché è giusto, perché non esiste soluzione razionale e argomentata che possa giustificare un'offesa a diritti e libertà in ragione di un contesto nazionale e/o culturale. Un uomo che picchia la moglie commette la stessa offesa ai diritti umani sia che la picchi al 100 Upper Side di Manhattan sia che la picchi in un sobborgo di Shanghai o in una baraccopoli ugandese. Si può contestualizzare, naturalmente, si può e si deve esaminare ogni singola circostanza, analizzarla sotto molteplici punti di vista con un procedimento logico e fondato su evidenze empiriche. Ma dal punto di vista etico non si può definire più o meno grave una violazione dei diritti umani in ragione di un dato culturale. Una violazione è una violazione, un diritto è un diritto e una vita vale una vita: tutti i giorni, in tutte le parti del mondo. L'argomento che poi mi fa imbestialire -paradossalmente cavalcato sia da interlocutori che si dichiarano "di sinistra" o "di sinistra radicale" che da conservatori retrogradi ributtanti come Daniala Santanché e Mario Borghezio- è quello appunto relativista, soprattutto nel momento in cui afferma che qualsiasi costume e comportamento è giustificato e accettabile perché inserito in un quadro culturale specifico, che, in quanto tale, ha una sua valenza imprescindibile. Il principio è benintenzionato, e può anche suonare come una cosa equilibrata, egualitaria e open-minded. Ma ha implicazioni invece discutibili, se non violente e brutali. L'idea che qualsiasi cultura abbia valore in quanto cultura non fa i conti con il problema dei diritti e delle libertà, appunto. C'è una differenza sostanziale fra pluralismo e relativismo culturale, da questo punto di vista: accettare più di un'idea e più di uno stile di vita e più di un punto di vista è un'inclinazione ovviamente benvenuta, ma non può essere messa sullo stesso piano -in fin dei conti dogmatico- di accettare qualsiasi idea, stile di vita e punto di vista. 
E a questo punto non può che emergere la citazione della pratica dell'infibulazione. Come la mettiamo, con l'infibulazione? La accogliamo come un costume culturale e di conseguenza la accettiamo perché siamo tanto rispettosi delle culture diverse dalle nostre? E se qualsiasi cultura è meritevole di rispetto, in che modo traduciamo questo principio a livello legislativo? Chi siamo noi per eccetera eccetera? E nel frattempo siamo in pace col fatto che milioni di donne finiscano vittima di una violazione crudelissima dei loro diritti personali? 
C'è un repertorio di affermazioni quali "rispettare tutte le culture" e "rispettare tutte le idee" che mentre dal punto di vista linguistico hanno una loro efficacia e segnalano una quantità di intenzioni tolleranti, dal punto di vista pratico si annettono a conseguenze rovinose e drammatiche. Da quando abbiamo confuso il rispetto della persona con il rispetto delle sue idee? Per quale motivo dovremmo rispettare le idee di una persona -o di un costume culturale- che ritiene giusto e necessario mutilare l'apparato genitale di una donna con la pretesa folle e agghiacciante di preservarne la purezza? L'infibulazione è un esempio che mette tutti d'accordo: ma se ne possono fare a decine, e diversi fra loro. Dal diritto allo studio (Sì, le bambine indiane non vengono a scuola. Però cosa vuoi dire ai genitori, è la loro cultura) al cannibalismo, dalla lapidazione delle adultere (Lo fanno per motivi religiosi, chi siamo noi per?) allo stupro in famiglia.
Ammettiamo e concediamo che questi e altri costumi barbarici facciano parte "della loro cultura": per quale motivo dovremmo considerare il fenomeno come una scusante e non come un'aggravante? Per quale motivo non dovremmo preoccuparci del fatto che certune pratiche culturali sono irrispettose dei diritti umani e delle libertà personali? Per quale motivo abbiamo a cuore diritti che in Italia coltiviamo e pratichiamo e difendiamo quotidianamente ma che al tempo stesso giudichiamo incompatibili o inapplicabili o estranei a tradizioni e "culture" distanti dalle nostre? Condanniamo Emilio perché dà un cazzotto a Giuliana, e giustifichiamo Ahmed perché lo dà a Nisrita? E in che modo questo metro doppio non fa di noi persone malevole, superficiali o addirittura razziste? 

A questo punto si potrebbe aprire la pagina dell'interventismo e della neutralità. Come ci si comporta quando in un Paese  sovrano si verificano violazioni gravi dei diritti umani come pulizie etniche, persecuzioni o massacri di civili? Durante il gennaio dell'anno scorso, Gheddafi tirava bombe in testa a sudditi che protestavano contro il suo regime autoritario e repressivo, minacciando di farne carne da macello per mezzo dell'esercito: che si fa? Se siamo d'accordo nel qualificare le decisioni di Gheddafi come ingiustizie, che facciamo? Stiamo a guardare, appellandoci alla neutralità, perché "Chi siamo noi?" e rispettiamo un principio politologico di derivazione ottocentesca come quello di non ingerenza dell'altrui sovranità nazionale? Oppure ci facciamo carico della tutela di principi di libertà e diritti umani -quello di vivere, tipo- intervenendo -anche con la forza: anche con la forza militare- per arginare e raddrizzare situazioni in cui si configura il rischio di emergenze umanitarie?
Tema un'altra volta articolato e controverso. Intanto me la cavo citando le parole di uno che ammiro parecchio, che sa il fatto suo e che di mestiere fa il Presidente degli Stati Uniti:
For make no mistake: Evil does exist in the world. A nonviolent movement could not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot convince Al Qaeda’s leaders to lay down their arms. To say that force is sometimes necessary is not a call to cynicism — it is a recognition of history, the imperfections of man, and the limits of reason.”
Ps: il motivo per cui vado matto per gli illuministi si condensa nelle ultime tre parole di Obama. Niente che si sia inventato lui, è una cosa che l'umanità ha imparato da Immanuel Kant: mettiamo al centro della nostra visione del mondo e delle nostre vite l'esercizio della ragione, ne facciamo un fondamento della nostra modalità di convivenza, dei nostri procedimenti di conoscenza e di progresso scientifico ma al tempo stesso, esercitandola, riconosciamo che ha dei limiti. Siamo proprio razionali.

martedì 22 maggio 2012

Ma quella musica pop qui, in fin dei conti, cos'è?

È un periodo che ascolto pochissima musica nuova. Immagino ce ne sia un sacco di appassionante e ganza, là fuori, ma io è mesi che ascolto cose che conosco già. Ascolto, riascolto, riscopro e mi incisto per cose vecchie.
C'è un successo ormai datato dei Baustelle, per esempio, cui mi sto appassionando molto. Si tratta di Il corvo Joe. Il testo è una cosa colta d'ispirazione decadentista: c'è il simbolismo, c'è lo sguardo critico sulla borghesia cittadina, c'è la nobilitazione poetica dell'emarginato. Non è male. Ma non è sostanziale: potrebbe pure parlare di fette biscottate, da un certo punto di vista, e funzionare comunque. Anzi, forse funzionerebbe di più. Il motivo per cui la canzone è strepitosa, tuttavia, è molto più legato alla struttura musicale e alla composizione. Ha molto più a che fare con l'andamento alternato fra il trasporto intenso e lo scazzo indolente, con la cura della metrica, con le aperture che accompagnano il ritornello, con il tocco solenne in dissonanza con le immagini da salotto arredato con divani sfondati. 



giovedì 10 maggio 2012

Let Obama be Obama

Il miglior commento sulla dichiarazione di Obama -e sulla tempistica della dichiarazione, e sulle implicazioni elettorali che può avere e su mezzi, fini eccetera- l'ha scritto Aaron Sorkin una decina di anni fa:
We're gonna lose some of these battles, and we might even lose the White House, but we're not gonna be threatened by issues.

mercoledì 9 maggio 2012

Stolen from Africa, brought to America

Al di là della scelta dei distributori italiani di modificare un titolo in inglese (Away we go) con un altro titolo inglese (American Life), nella speranza -non so quanto fondata- che il pubblico mettesse in relazione questo film di Mendes con il suo American Beauty; al di là del fatto che Mendes si conferma un regista capace di raccontare storie caratterizzandole a fondo ma non sempre di evitare di perdersi e/o diventare noioso -vedi la storia del sacchetto, la semplicità, la vita: ma è una furbata perdonabile dentro a un film molto bello-; al di là del fatto che dentro American Life c'è praticamente tutto il primo disco di Alexi Murdoch, che era un piccolo capolavoro; al di là del fatto che ormai li conosciamo perfettamente, i film piccoli (Juno, Little Miss Sunshine) ben fatti e ben recitati che giocano efficacemente a stare a metà fra il mercato indipendente e quello mainstream; al di là del fatto che alla fine il film mi è piaciuto, vorrei far notare a chi l'ha sottotitolato in italiano che i bufali vivono nella savana, o al limite allo zoo e che i buffalos non sono bufali: sono bisonti.

lunedì 7 maggio 2012

De la patrieeee

Non sto a farla tanto lunga, anche perché è una premessa necessaria al punto: io penso che tendenzialmente le persone attribuiscano ai simboli e alla loro componente più astratta e superficiale un'importanza eccessiva, irrazionale e talvolta rovinosa. Parlo dell'acqua santa in chiesa, del Corano bruciato, del reato di vilipendio allo stato, dell'abuso di lettere maiuscole che frequentiamo scrivendo, ma anche del kebabbaro aperto sotto casa e della Coca Cola alla festa dell'Unità. E penso che un simile investimento sull'apparato simbolico delle cose possa condurre a un abbandono preoccupante del piano invece centrale delle cose, e cioè -ding!- le cose stesse. 
Detto questo, ho guardato due o tre volte un breve filmato dei festeggiamenti gauchisti di ieri sera e mi è venuta un po' d'invidia, un'altra volta. Ho la sensazione che i militanti italiani di sinistra non canterebbero l'inno nazionale, in caso di vittoria alle elezioni. Si sentirebbero forse un po' ridicoli o forse un po' fascisteggianti, o forse entrambe le cose.
Ma magari mi sbaglio.

venerdì 4 maggio 2012

Poi vedete voi

Tre cose accessorie sul caso Rossi.

Pur con diverse capriole e distinguo e premesse iniziali, Vittorio Feltri e Giampiero Mughini hanno preso la loro posizione sulla vicenda Delio Rossi ricorrendo al vecchio trucco di un bel pezzo della retorica di destra in questo Paese: arricchire la propria opinione di un'aura di libertà e indipendenza di giudizio, di capacità coraggiosa di dire cose fuori dal coro in contrapposizione alla pretesa "ipocrisia" e al presunto "falso perbenismo" di altri interlocutori. A loro non la si fa, al solito: e non sono come quegli ipocriti e moralisti secondo cui picchiare le persone è sbagliato, loro. Loro dicono le cose come stanno, loro: e le cose stanno che un bel paio di schiaffoni eccetera. Conservatori retrogradi che cercano di passare per anticonformisti: oplà.

C'è poi un meccanismo psicologico interessante che -mi pare- motiva molti giudizi tutto sommato difensivi di Delio Rossi, identificato nella considerazione "Al suo posto avrei fatto così anch'io." Cosa probabilmente vera -molte persone fanno così, nella loro vita: picchiano altre persone- o verosimile -molte avrebbero fatto così- ma che secondo me è molto irrilevante nella valutazione dell'episodio. C'è qualcosa di molto pericoloso nell'attribuire eccessiva importanza al contesto del momento e alle circostanze emotive dell'episodio: in questo caso, c'è il rischio di calpestare il diritto di Ljajic a non essere pestato per aver mandato a fare in culo Rossi. Di quello si tratta, in fondo: di un diritto.
Io non so come mi sarei comportato in quel caso, ma se a 52 anni mi capitasse di aggredire uno di 20 in quel modo, spero di pentirmene al più presto, di chiedere scusa e di cercare di rimediare. E vorrei che i miei amici mi dicessero "Posso capire la rabbia del momento, ma hai perso la testa: chiedi scusa, perché hai fatto una cazzata." e vorrei che mi venisse ricordato e ripetuto fino alla nausea un concetto fondamentale della convivenza collettiva: picchiare le persone è sbagliato.

Io ho fatto un sacco di cazzate nella mia vita. Delio Rossi è una brava persona. Le cose succedono. Fine della storia. O volete un bel paio di schiaffoni?

giovedì 3 maggio 2012

"Siamo messi male"

Avrei voluto scrivere una cosa su un paio di commenti che ho sentito stamane dal barbiere sulla vicenda Delio Rossi, su quanto trovo superficiale e cretina la posizione secondo cui "un ceffone non ha mai fatto male a nessuno", su quanto trovo discutibile il doppio standard cui si ricorre per misurare un'aggressione fisica verificatasi su un posto di lavoro e su quanto trovo paradossale il risultato di dover scrivere -come se la cosa fosse originale, o necessaria- che picchiare le persone in reazione a una presa per il culo o a una critica maleducata è sbagliato. Picchiare le persone è sbagliato. Non si fa, è da stronzi: e se lo si fa, poi è il caso di pentirsi, di chiedere scusa, di cercare di rimediare alla malefatta.
Poi proprio mentre aspettavo il mio turno dal barbiere, appunto, ho letto il post di Francesco Costa e mi sono accorto che ci aveva già pensato lui, mentre io facevo le quattro a guardare vecchie puntate di The West Wing.

Ps: già che siamo qui, come ci si comporta quando un interlocutore estraneo -diciamo dal barbiere, per esempio- sostiene cose che noi riteniamo disgustose, ignoranti e malevole? Io stamane ho cercato di contestare diplomaticamente quello che diceva, ma se non fosse stato per il contesto avrei speso parole molto più pesanti e avrei probabilmente perso la pazienza. Che gli si dice, a uno sconosciuto che spara cazzate giganti?