domenica 30 ottobre 2011

Cosa succede quando si pensa bene

Qualche tempo fa, ho scritto una cosa su Antonio Scurati e su quelli che mi sembrano grossi punti deboli della sua attività d'intellettuale. Il punto di quel post è il seguente: preferisco scrittori e intellettuali che prendono spunto dal racconto di cose piccole e semplici, intime e puntiformi e che dalla riflessione su quei piccoli mondi da cameretta facciano scaturire significati invece profondi, condivisi, nobili, veri. 
Niente di originale, niente che non abbia già detto Amleto a Orazio, quella volta: 
Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.
Ieri sera, su Rai3, Alessandro Baricco ha tradotto in un'esibizione formidabile il mio punto di vista. Novantasei minuti d'applausi. 

giovedì 27 ottobre 2011

La gente sono strani

Sono seduto in un McDonald's a fare colazione. Approfitto della connessione per mandare una mail d'invito ai miei amichetti per la festa di compleanno mia e di un altro amichetto. Ho in fianco due adolescenti che entrano dopo a scuola per preparare l'interrogazione di chimica. Una delle due controlla il suo iCoso. Le è arrivata una mail che la invita a una festa di compleanno. La commenta così: "Ma come stai a invitarmi a una festa di compleanno via mail? A quest'ora?!"

mercoledì 26 ottobre 2011

What I wouldn't give to see her pee

C'è una sintetica spiegazione del perché ci si fa la pipì addosso quando si è molto spaventati, su Slate

Sentirsi M. Bourke-White, davanti al camino


Ma essere molto consapevoli di essere semplici utenti dell'iCoso, e nemmeno dei più esperti e competenti di fotografie: anzi.

lunedì 24 ottobre 2011

In the suburbs I, I learned to drive and you told me we'd never survive

Nel 1986, Neil Young e sua moglie hanno messo in piedi l'organizzazione di un concerto il cui ricavato era destinato al finanziamento della Bridge School, un istituto che si occupa di minori affetti da gravi disabilità fisiche e mentali. Da quell'anno, il Bridge School Benefit è diventato uno dei concerti di beneficenza più fighi e attesi dell'anno. C'è sempre Neil Young, intanto: e grazie a lui c'è anche altra gente capace e di successo.
Quest'anno, oltre a Santana, Eddie Vedder, i Foo Fighters e molta altra gente, c'erano gli Arcade Fire. Hanno suonato unplugged una quarantina di minuti, ma mi hanno portato via già solo con l'attacco di The Suburbs. E poi c'è Rebellion (Lies) intorno al 17simo minuto, che è sempre da brividi. Verso la fine sale sul palco anche Young, e insieme eseguono Helpless. E concludono con Wake up, e Butler saluta tutti con la sua consueta e formidabile formula: Take care of each other.
Insomma, il consiglio è di mettersi tranquilli, bere qualcosa di caldo e guardare il video qui sotto. Ne vale la pena.

domenica 23 ottobre 2011

Cominciamo bene

Il capo del governo provvisorio libico ha confermato la solidità di tutte le preoccupazioni nutrite da chi è consapevole che nelle fasi di transizione al termine di una guerra civile ci sono elevati rischi d'instaurazione di regimi tirannici e oppressivi almeno quanto quelli appena rovesciati:
«La sharia sarà la principale fonte di legge, ogni norma che contraddice l’Islam sarà abrogata.»

Punti di vista

Volevo dire a Enrico Mentana, intervistato ieri sera da Fazio, che non ho riscontrato nessun problema nella trasmissione e divulgazione delle immagini relative all'omicidio di Gheddafi da parte dei media. Non ci ho visto sensibilità urtate, cattivi gusti o problemi di tipo etico legati alla gestione della notizia. La morte di uno dei tiranni più longevi di questo pianeta è un fatto storico che appartiene alla sfera collettiva: non alla comunità di Cogne o di Perugia, ma a tutti noi.
Volevo dire a Enrico Mentana che a me interessa qualsiasi documento che funzioni come fonte della notizia, qualsiasi immagine che testimoni anche la più lontana angolazione della fine del tiranno.
Volevo dire a Enrico Mentana che a me come a molti altri cittadini delle moderne democrazie occidentali, sono cari i meccanismi informativi che comunicano tutto quello che è successo a un dittatore falciato brutalmente dalle dinamiche della vendetta di popolo che si ripetono in ogni guerra civile; che al tempo stesso ci fanno schifo la forca e la giustizia di piazza, ci ripugnano i processi sommari, ci disgusta anche solo l'idea che qualcuno possa a prendere a calci il cadavere di un uomo. 
Ma quando si tratta di storia, di tiranni morti ammazzati, non c'è nessuna verità che fatichiamo a ingoiare. Anche se contiene crudeltà e abomini, fatti ributtanti e disgustosi, la vogliamo tutta. Vogliamo anche il bis. 
Volevo dire a Enrico Mentana di non porsi problemi. Strozzateci, con la verità. Poi noi ci facciamo un'idea.

venerdì 21 ottobre 2011

Che bello, dopo il morire, vivere ancora/2

Non è che mi ci metto io.
Fosse per me, starei in casa a leggere Philip Dick, ad ascoltare dischi e guardare serie Tv americane bevendo abbondanti tazze di Earl Grey. Serenamente: col pilota automatico.
Sono gli amichetti che si fanno venire le idee stupidine, e io ci casco dentro tutte le volte. L'altra volta, ci siamo lanciati giù da un aereo col paracadute. Stavolta andiamo a fare un volo in tandem col parapendio. Domani mattina.
Se non altro, in un'ipotetica scala di pericolosità e spavento, stiamo abbassando il livello. 
Tocca rifare il testamento, in ogni caso: hai visto mai.
Riconfermo sostanzialmente tutto quanto ho scritto qui l'anno scorso, soprattutto relativamente al funerale, e aggiorno la questione nel seguente modo:
L'iCoso lo mollo a Isa, che è un'utente Mac da più tempo di me ma non riesce a sfruttare i vantaggi della promozione Tre. Ti cambierà la vita, sai. Non come la lavatrice, ma un pochino te la cambierà.
Il Mac non lo mollo più a Nico, perché nel frattempo lui ha comprato il pro. Di conseguenza, lo lascio ad Ale. Funziona: se gli dici di fare una cosa, la fa; e la fa sempre. Come la fotocopiatrice, la macchina del caffé, il tostapane. 
La collezione di tazze, che l'anno scorso avevo dimenticato, è per Paul e Dada. Mi piace pensare che i cinque, sei, facciamo sette figli che avranno possano cominciare la giornata facendo colazione con quelle.
La collezione di cd rimane povera, ma si è decisamente allargata di recente. Saranno un centinaio. Esclusi quelli dei Blur, che vanno a Nich nella speranza di persuaderlo della loro evidente superiorità sugli Oasis, se li possono spartire Nico e Facche: senza litigare, da bravi. 
Fine. Pensatemi, talvolta.

mercoledì 19 ottobre 2011

All the people, so many people

Dalle 20 alle 21 di tutti i mercoledì, da stasera fino a fine giugno, uno può fare così. Può aprire l'internet, cliccare qui e ascoltare la voce mia e del mio amichetto dire cose fra una bella canzone e l'altra. La questione complessiva si chiama Parklife. La grossa ambizione che abbiamo è di raccontare storie attraverso la musica, e la musica attraverso le storie. Talvolta ci riusciamo, talaltra meno. Ma passiamo sempre ottima musica. No, non dipende dai gusti; noi passiamo ottima musica: poi a uno possono fare schifo pure i Beatles, ma per quei problemi esistono dei farmaci.
E no, non siamo fighi come questi qui sopra. Ed è un problema per cui non esistono dei farmaci, peraltro. 

martedì 18 ottobre 2011

Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera

Mi ricordo bene che giorno era, l'ultima volta. Era il 24 maggio 2010. Lo ricordo bene perché sta scritto sul libretto universitario. Quel giorno c'era l'appello dell'esame di letterature comparate. In ragione di un numero esuberante d'iscritti, il prof spostò me e altri studenti al giorno successivo, il 25. 
La notte fra il 24 e il 25, in sfregio a ogni buona intenzione di cui si lastricano spesso gli studenti, la trascorsi leggendo un intero romanzo: era parte integrante del programma, e io non l'avevo nemmeno sfogliato. Si trattava de La strada di Swann di Marcel Proust, parte della serie di romanzi La ricerca del tempo perduto, una delle opere fondamentali nell'ambito della sperimentazione romanzesca dei primi decenni del XX secolo, e probabilmente il tomo più celebre e importante fra quelli che compongono il mastodontico edificio letterario eretto da Proust. La strada di Swann è il libro in cui c'è l'episodio della madeleine, per capirci: ed è il romanzo il cui incipit è titolo di questo post, preso a prestito anche in una scena commovente di uno dei miei film preferiti.

E' inoltre un testo che ha la caratteristica di essere costruito a partire da un procedimento stilistico tanto strutturato quanto sconsiderato, in cui l'autore si produce nella stesura di selvagge ammucchiate di frasi, orge ipotattiche, abbuffate retoriche, complessità sintattiche, rovelli ed orpelli, barocchismi e svirgolismi; e tu puoi pure provarci a leggere un periodo ad alta voce, ma non ce la fai, e sai perché, è facile, perché i periodi di quel romanzo lì non finiscono mai, mai cazzarola, e può pure venirti un enfisema, un ictus, un embolo, un lupus no perché non è mai lupus, ma cosa vuoi che gliene importi a Proust che ormai è morto, tu un periodo letto ad alta voce non riesci a concluderlo, perché lui mette un sacco di virgole, ma intendo dire tante, tante di più, e poi forse si ferma, ma non t'illudere, è solo perché poi si riprende ancora più di slancio, lui, Proust dico, capace di metterci un paio di pagine a completare l'esaustiva e chirurgica ricognizione di un microscopico pensiero che attraversa la testa di madre Françoise, che poi si scrive con la cediglia, santi numi, ora correggo e, dicevo, quel pensiero è naturalmente irrilevante rispetto agli sviluppi dell'intreccio, che poi quale intreccio, sono sette romanzi per un totale di almeno tremila pagine, in cui c'è Swann che cerca di mettere insieme i pezzi della sua vita passata e in cui l'autore riflette su intere biblioteche di argomenti diversi, ma comunque sto divagando, il punto è che Proust scriveva tutto così, e all'inizio ti dà fastidio, ma tanto fastidio, da prenderlo a testate, poi pian piano lo osservi da vicino, circospetto, e il fastidio svanisce per lasciare il posto alla curiosità, poi la curiosità si ammorbidisce, e in men che non si dica la sua prosa invereconda ti trascina in quel vortice di virgole, in quel groviglio di frasi, in quel ginepraio di arabeschi e perlamadonna, quando ci viaggi dentro inizi a a godere di un certo piacere, e capisci che se lui era un psicopatico, beh, tu non sei da meno, ed è proprio lì, è quando lui prevede che il lettore sta per realizzare la profondità e le dimensioni delle sue turbe mentali, precisamente nel momento in cui intuisce che il suo destinatario sta per valutare l'idea di prendere uno Zoloft, un Prozac, almeno un Tavor diosanto, ecco, è esattamente all'incrocio di quelle coordinate spazio-temporali dentro la psiche del lettore, che Proust piazza uno stramaledetto punto.

Cominciai il libro verso le dieci di sera. Lo finii che erano le sei del mattino. Alle sei e mezza, avevo il pullman per andare a Milano. Al di là della pirlata che ho scritto qui sopra, fu onestamente una lettura incredibile.
Quella è stata l'ultima volta, e direi pure la prima, che ho letto un libro tutto d'un fiato, come si dice. 
Anzi, la penultima: ho trascorso praticamente tutta la scorsa notte in bianco a causa di una lettura in apnea. Il romanzo stava lì sulla scrivania e ho preso a sfogliarlo. E sarà stata la sconsiderata abbuffata di pizza a cena che mi tumultuava nello stomaco resistendo ai valorosi ma insufficienti colpi della magnesia, ma dopo la prima decina di pagine, ho letto la seconda decina. Dopo la seconda, la terza e così via fino all'ultima.
E' un romanzo di Don DeLillo, s'intitola L'uomo che cade, racconta gli Stati Uniti dell'11/9 e indovinate un po', a me è piaciuto. 

venerdì 14 ottobre 2011

I may be paranoid, but no android

In questi giorni il sito di NME compie 15 anni. Per festeggiarne il compleanno, la redazione ha stilato l'ennesima listona delle canzoni più belle uscite da quando esiste la pagina online della rivista. Ha vinto il pezzo ispirato a un personaggio inventato da Douglas Adams: Paranoid Android dei Radiohead. Il tutto a ribadire il fatto che Ok Computer ha ormai fatto il giro: uscito come disco avanguardistico, rientra ormai nella categoria dei classici. 
Qua sotto la cover di quei mattacchioni degli Easy Star All-Stars.

giovedì 13 ottobre 2011

L'insostenibile leggerezza degli omicidi a suon di calcagnate in ascensore

Delle vagonate di tipi umani consegnateci dalle produzioni cinematografiche negli scorsi decenni, una delle principali è senz'altro quella dell'uomo dallo sguardo triste e dalle poche parole. Si può tracciare una parabola più o meno minchiona che parte da Humphrey Bogart e John Wayne per arrivare a Russell Crowe e Jason Statham. Con evidenti e svariati gradini di capacità e consapevolezza, questi e altri attori hanno messo davanti alla macchina da presa interpretazioni tirate su con poche espressioni, battute di quattro sentenze laconiche, sguardi prolungati e un livello di fighismo imbarazzante per noi persone vagamente normali. Sotto questa corazza stratificata di sguardi struggenti, scazzo totale, passi lunghi e ben distesi cova talvolta l'animo bruciante di chi ha trasformato le sorti della sua vita in quelle di un conto in sospeso; di chi, troppo impegnato con l'universale per potersi curare dell'essenziale, altro non è che uno svergognato e incorreggibile sentimentale in borghese.
E' più o meno a questa categoria che appartiene il protagonista di Drive interpretato da Ryan Gosling, a memoria personale l'unico del quale non si riesce a conoscere il nome del personaggio durante il film. 

Io non so chi sia Nicolas Winding Refn, ma il film che ha girato ha diverse qualità:

1) Racconta la storia di uno che fa l'autista per criminali e fa lo stunt nei film: ecco, i titoli di testa sono scritti in rosa. Con un font che pare uscito da un cartone animato tipo Vola mio Mini Pony.
2) I primi dieci minuti sono belli, tutti giocati su silenzi, semafori rossi, luci di elicottero e voci radiofoniche.
3) Durante i successivi quaranta minuti vediamo Gosling andare in macchina, Gosling indossare giubbetti discutibili, Gosling guardare la protagonista, la protagonista guardare Gosling, la protagonista chiedere una roba a Gosling, Gosling rispondere quando gli capita, Gosling fare due facce, forse una e mezzo. Insomma. Non. Succede. Un. Cazzo. 
4) Dopodiché, succede un bel po' di roba e i quaranta minuti precedenti rivelano la loro funzione. Con uno scarto imprevisto, Gosling diventa una furia implacabile che indossa giubbetti discutibili e dimostra il suo amore per la protagonista tramite devastazioni, aggressioni senza quartiere, spargimenti di sangue. Ma tutto questo lo fa mantenendo silenzio, sobriamente: senza fare il giro e diventare una caricatura o una parodia di se stesso. E quando te ne accorgi, lui si è già mangiato il film. 
5) Al di là dello sviluppo, il tutto è abbastanza una cosa di genere, di maniera. E' un film di macchine e delinquenti, ambientato a Los Angeles: fine. Non ci sono grosse trovate di contenuto. Drive appassiona più per come è fatto, per le scelte controintuitive del regista, per il passo modesto e silenzioso e per l'andamento intenso delle riprese. E poi c'è una colonna sonora schiacciona, straripante di synth e di elettronico.

Avevo visto il trailer due settimane fa. Non gli avrei dato una lira. Mi è piaciuto parecchio. Raccomandata visione al cinema per le ragioni estetiche di cui sopra. Sconsigliatissimo a chi giudica un film esclusivamente a partire dalla scrittura e a chi è appassionato delle regie che vanno mille all'ora. In Drive si parla poco e si fanno cose con gran calma, perché si è in missione per conto del proprio romanticismo sanguinario.

mercoledì 12 ottobre 2011

Movement of Jah people

Fra i trucchi dialettici presenti nel dibattito politico contemporaneo, la Reductio ad Hitlerum è uno dei più noti e diffusi. Si tratta della tendenza di stabilire un legame di qualsiasi tipo fra la posizione dell'interlocutore e un elemento riconducibile alle tragedie del nazismo, dei campi di concentramento, delle follie della superiorità della razza.
La stessa tendenza è riscontrabile, con toni e registri diversificati, anche al di fuori del dibattito politico, naturalmente: un insegnante molto severo che dà un sacco di compiti? E' peggio di Hitler. Un carabiniere integerrimo? E' uno della Gestapo. E così via. I tic mentali e le pigrizie che stanno sotto questa tendenza sono parecchio ingombranti, ma sbandierano un'attenuante nella misura in cui, dentro la mentalità collettiva -almeno- occidentale, Hitler rappresenta l'incarnazione suprema e definitiva del male su questa terra. Peggio di Hitler non c'è nessuno: è il comparativo al di sotto del quale non si può andare.
(Poi uno può mettersi a fare le seghe al criceto obiettandomi Stalin, Mao, Pol Pot o altri tiranni maledetti: io sto parlando di percezione collettiva)
E così, ai tempi della guerra in Irak andava molto forte la Reductio su Bush, Di Pietro quando si annoia tira dentro il nazismo per dare addosso a Berlusconi eccetera.
Visto che una piccola fascia dell'elettorato americano non ha ancora digerito la sua elezione, anche perché voglio dire stiamo comunque parlando di un negro, lo stesso Obama ha avuto molto a che fare con accuse di questo tipo: l'ultima volta, settimana scorsa. A un ex giocatore di basket che si chiama Hank Williams Jr, è scappato un paragone fra il presidente e il dittatore nazista. Su Slate hanno colto l'occasione per fare una domanda e poi rispondere: e prima di Hitler, qual era la più riconosciuta e condivisa incarnazione del male?
Il faraone, pare.
Il tema ha un po' a che fare con la secolare centralità della bibbia nell'orientamento culturale di molti europei, e più nello specifico con il fatto che nell'Esodo si racconta la -diciamo così, con beneficio d'inventario- storia della schiavitù ebraica in Egitto. A dimostrazione della malvagità del sovrano, c'è l'argomento per cui anche quando dio scaglia sugli egiziani le piaghe per ottenere la liberazione del suo popolo prediletto, il faraone se ne infischia e resiste fino alla decima.
Delle dieci piaghe d'Egitto, la mia preferita è quella dell'invasione delle rane, comunque.

Chiunque salva una vita salva il mondo intero, circa

La scorsa estate (no, non quella che è appena finita: quella precedente) sono andato a Trescore Balneario a vedere un concerto di Dente. 

Non è il giorno della marmotta. Non siete finiti dentro Ricomincio da capo. Peggio per voi, perché Bill Murray è un tipo giusto.

Era il tipico concerto estivo all'aperto, cioè la parte di una festa più grande e complessiva in cui si beve tanta birra si chiacchiera si curiosa tra le bancarelle. In quella festa, mi stupì molto la presenza di un piccolo stand di Medici senza frontiere. Là dove c'era l'erba di solito c'è lo stand di Emergency, organizzazione che ho sempre ammirato per la sua attività ma dalle cui posizioni -ufficiali o meno- mi sento molto distante. Mi pare invece che Msf faccia le stesse mirabili e straordinarie cose (costruire ospedali dove non ce ne sono, salvare vite che nessun altro potrebbe salvare) senza tenere punti politici: non parla di cultura del dialogo, di pace e di guerra, non propone analisi e commenti sulle strategie politiche internazionali, non fa polemica con questo governo, non entra in conflitto con quell'altro. Msf non appunterebbe mai come orgoglio associativo la caratteristica di essere una "presenza scomoda". 
Insomma: dentro Emergency esiste un'influente corrente di pensiero viziata da un antiamericanismo alle vongole, alla Michael Moore, che a me non piace per nulla. E' soprattutto un problema di metodo, d'impostazione e alla lunga di credibilità. 
Dentro Msf, quella roba lì non c'è. Quindi preferisco. E infatti ho comprato una loro maglietta, quel giorno. 
Tutta quella menata qui per dire che qualche minuto fa, l'amichetta coinquilina (!) mi ha scritto sulla chat di gmail per chiedermi il permesso di regalare per un giorno a Msf il mio account Facebook. In questo periodo, io mi sono auto-bannato dal socialino perché prende troppo tempo alla stesura della mia tesi e naturalmente ho accordato a quei bravi ragazzi di fare quello che vogliono con il mio profilo.

Quanto a perdere tempo invece di occuparmi dei vampiri, ci sono questo blog e l'ultimo di Dente, appunto.

martedì 11 ottobre 2011

Se le piace camminare quando piove tanto, sarò l'ombrello di qualcun altro

La scorsa estate (no, non quella che è appena finita: quella precedente) sono andato a Trescore Balneario a vedere un concerto di Dente. Non sapevo molto cos'aspettarmi, perché non avevo idea di come se la cavasse lui dal vivo. L'avevo sentito per la prima volta a Condor tempo prima, e mi era piaciuto molto. Poi l'amichetta coinquilina ha portato a casa il suo disco L'amore non è bello (disco uscito il 14 febbraio, peraltro) e io non ho ascoltato altro per settimane. Alla prima occasione, siamo corsi a sentirlo.
Per descrivere la musica di Dente, a partire da egli stesso lui medesimissimo, chiunque ricorre a un riferimento colossale e accessibile a tutti: Lucio Battisti. La musica di Dente è un dichiarato ed efficacissimo omaggio a Battisti, da capo a piedi, con l'aggiunta di una vena amaramente ironica che al titolare qui ricorda quel geniaccio di Morrissey.
Quel concerto fu molto bello. Dente sul palco è uno che suona più che onestamente e fa ridere. E per "fa ridere" intendo dire che fra una canzone e l'altra lui dice cose divertentissime, sceme, comiche. Cioè: fa proprio ridere. Ma tanto. Poi magari attacca un pezzo tristanzuolo e schiacciato su un amore che non c'è più. Ma al termine di quello, state certi, un paio di risate vere le tira fuori ancora. Dopo qualche mese, siamo andati a rivederlo al teatro Dal Verme. E ha meritato un'altra volta.

Col tempo, con la bravura e con una quantità esorbitante di concerti Dente ha messo insieme un suo pubblico e si è preso una sua fetta di mercato: ha raggiunto la ballotta del rock nazionale, ed è diventato un artista ganzo. Non famoso, ma nemmeno di nicchia. Chi sta un po' attento alle novità del pop nazionale lo conosce.
Oggi esce il suo ultimo disco, Io tra di noi.
Se non ho capito male, è prodotto con più ciccia, più possibilità e più attenzione dei precedenti. Forse gli farà fare un altro passo verso la popolarità. Io me lo auguro.
Lui dice che "è un disco molto malinconico e per niente allegro ma io di quello che scrivo non ci capisco molto o forse è la gente che non ci capisce niente, questo non l'ho mai capito, capito?"
Farà due date al Magnolia, fra un po'.
Innamorati o appena mollati, c'ho-i-cazzi-miei o con la testa da un'altra parte: secondo me val la pena andarci; se va bene si ride e si canta, se va male si piange e si canta. Tutta roba che fa bene alla salute.


Aggiornamento: sul Post, si può ascoltare tutto il disco in streaming.

lunedì 10 ottobre 2011

Eligible, not too stupid. Intelligible, and cute as Cupid. Knowledgeable, but not always right. Salavagable, and free for the night

Una delle cose che mi appassiona di più della musica pop, è che ci può stare dentro qualsiasi cosa e ogni cosa al suo posto: che, tralasciando per un attimo il nodo qualitativo, la diffusione quantitativa di una galassia di prodotti culturali di massa mette insieme pezzi più o meno pesanti della vita delle persone, avvicina e allontana, nelle logiche dei soliti gradi di separazione. Non sto parlando con toni liquidatori delle persone che possiedono la collezione completa dei dischi di Orietta Berti e Toto Cutugno (che comunque esistono, eh, eccome: pensateci bene. Esistono: hanno un lavoro, una vita sociale e sentimentale, i mestieri da fare e le vacanze da programmare) ma di cantare a squarciagola una canzone insieme ai propri amichetti intorno a un tavolo e di cantarne un'altra insieme a una massa di sconosciuti a un concerto milanese. Più in generale, mi riferisco al reticolo sterminato di canzoni e suoni, parole e immagini in cui caschiamo dentro con diversi gradi di profondità e trasporto, del quale condividiamo quello che ci capita di condividere: gli avanzi, sono i Beatles.

(Conclusione facilona, lo so. Però il concetto funziona. Nel caso, sostituire la parola Beatles con equipollenti credibili.)

E insomma dentro questi magici mondi ci sta un sacco di roba. Ci sta anche la megalomania di Stephin Merrit, leader dei Magnetic Fields. Settimana scorsa, ho ascoltato molto un loro disco e ne sono uscito frastornato. 69 Love Songs è uscito nel 1999, ed è uno dei dischi più giganti e pirla che io conosca. E' un disco triplo, contiene -fantasia al potere- 69 canzoni d'amore e ha la caratteristica di rivisitare e rivoltare decine di generi musicali con senso dell'umorismo e consapevolezza, disinvoltura e grazia. Frank Sinatra e gli Smiths, The Jesus and Mary Chain e gli Smash Mouth: c'è dentro di tutto. E' un gigantesco gioco di riferimenti e citazioni, che si dispiega però tramite una rara competenza tecnica. Come ha detto il suo autore, non si tratta di un disco che parla di amore. Si tratta di un disco che parla di canzoni d'amore, "which are very far away from anything to do with love." 
Sono quasi tutte canzoni piccole, messe su con un'aria vagamente dimessa qui e più intensa là. Non ci sono brani memorabili che spiccano rispetto alla media: è una cosa più organica e corale, e un pezzo alla volta l'opera prende forma. Mettendo insieme i singoli tasselli ci si accorge di aver di fronte un disco pazzeschissimo. Per darvi un'idea della ricchezza stilistica, sui crediti ufficiali è scritto che Merrit ha suonato i seguenti strumenti: 
Digitech vocalist, Roland harmonizer, vocoder, ukulele, baritone ukelele, Kaholas ukelele, Admira classical, acoustic-electric 12-string guitar, lap steel, fado guitar, bass guitar, mandolin, autoharp, Marxophone, ukelin, tremeloa, violin-uke, sitar, zither, violin, musical saw, keyboards, synclavier, Moog Satellite, piano, harmonium, Wurlitzer electronic piano, organ, rhythm units, recorder, ocarina, pennywhistle, Maestro wind synthesizer, Hohner melodica, Paul Revere jug, rumba box, xylophone, kalimbas, Radio Shack 75-in-One Project Kit, drum kit, cymbals, rain stick, chimera, maracas, conga, bongos, triangle, bells, tambourine, washboard, steel drum, Chicken Shakers, finger cymbals, springs and Slinky guitar, pipes, bamboo harp, spirit chaser, sleighbell, fingersnaps, thunder sheet, cabasas, cowbells, gong.
Già.
Potrei proseguire nel tentativo di raccontare un po' 69 Love Songs, ma fidatevi: è un sommo capolavoro. Sfido chiunque -anche i fan di Toto Cutugno e Orietta Berti: soprattutto loro- a non trovare almeno 25 canzoni che gli piacciono.

Una delle mie canzoni preferite del disco si chiama A Chicken with Its Head Cut Off. La struttura del brano è più o meno country, ma lui la canta da crooner e ci ha buttato dentro qualche pettinata che ne alleggerisce l'ascolto. Merrit dice di avere tutti dei casini sentimentali, e li esprime per mezzo della metafora del pollo senza testa che corre da tutte le parti; si concede anche un breve momento d'ironica autocommiserazione: Who'd fall in love with a chicken with its head cut off? It ain't pretty.
Funziona: il cuore senza testa è un po' il concetto basilare dell'amore occidentale, almeno dagli stilnovisti in poi.
Non so se Merrit ne fosse al corrente, io spero di no perché la coincidenza sarebbe way più gustosta, però nella storia americana una cosa simile si è verificata letteralmente: e il pollo c'è rimasto 18 mesi, senza testa. Poi è morto. 
Magici mondi: lessi della cosa su questo libro fatto apposta per i rompipalle come me, qualche anno fa.

venerdì 7 ottobre 2011

Cosa ho imparato in un breve viaggio in Bretagna


1) L'aeroporto Charles de Gaulle è grandissimo. No, non così. Tanto di più. E ci puoi trovare signore di origine magrebina che ti danno indicazioni senza che tu gliele abbia chieste. E quelle indicazioni sono errate.

2) Mio padre russa come un toro ubriaco. Oddio, questa la sapevo già: diciamo che è stata una riconferma.

3) Viaggiare su un TGV è sempre un grande piacere sia fisico che mentale.

4) Lamballe, oltre a ospitare il più importante allevamento di cavalli di razza bretone al mondo, è un posto carino. E per prevedibili ragioni geografiche, inizia ad avere un vago sapore d'Inghilterra: da anglofilo sparato quale sono, ho molto apprezzato.

5) I cavalli bretoni sono bestie enormi. Tipo che a 2 anni pesano circa una tonnellata. Hanno inoltre il fascino dell'animale il cui utilizzo è stato drasticamente superato dalle innovazioni tecnologiche, ma il cui appeal si è rovesciato bene su ricconi e impallinati del caso. E che se un cavallo bretone è ben piantato e ha una discendenza di sangue fica, può valere anche 10.000 euro.

6) In Bretagna (o Britannia, è lo stesso) va molto forte un tipo di burro salato. E non è male, in effetti.

7) La flan al cocco è buona.

8) 69 Love Songs dei Magnetic Fields è un disco stupendo. Nuova micro-ossessione musicale alle porte. Arcade Fire, non siete nessuno.

9) Il romanzo di Scurati migliora un po', procedendo nella lettura. Non si libera di quel sovrappiù di registri epici e ampollosità stilistiche, ma perlomeno va un po' più a fondo col racconto. Per farla breve, sullo scenario distopico s'installa una grossa vicenda collettiva di resistenza all'incedere dei tempi e una piccola questione privata di un padre con la figlia.

10) Steve Jobs non c'è più. Stavo in taxi, ieri mattina, quando la radio ha detto della notizia. Non ho particolari commenti da fare, se non che se ne è andato uno che ha migliorato il mondo, e che come nessuno è riuscito a sovrapporre la sua immagine personale su quella dell'organizzazione di cui fa parte. A quei livelli lì, ci riesce il papa, forse: ma lui gioca facile.

E basta, direi. Ah: sono tornato a casa stanco ma felice, naturalmente.

lunedì 3 ottobre 2011

Modestamente

Al Post hanno messo online il racconto di una storia di cui ha parlato anche il titolare qui, ormai 3 anni fa.

We pledge allegiance, all our lives

Sapete cos'hanno in comune il primo militante morto nella rivoluzione americana, il primo produttore di orologi e il primo chirurgo a operare con successo a cuore aperto? Erano fratelli neri.
Ci sono queste e altre piccole informazioni significative, dentro Black man di Stevie Wonder. Oltre a mettere in piedi un piccolo spettacolo di groove funky che va via bello sereno, il pezzo ha la caratteristica di denunciare le miserie del razzismo tramite un elenco di dati di fatto e imprese notevoli compiute da neri e bianchi, latinos e orientali. Non ha niente della rivendicazione rabbiosa del ghetto e della crociata furente tipica di un bel pezzo di musica pop nera: ci sono dentro un orgoglio e una lucidità consapevole. Mescolate all'arrangiamento funzionano molto bene. E' una canzone minore di uno dei dischi più strafighi di sempre, cioè Songs in the key of life. Il testo lo trovate qui.