giovedì 29 settembre 2011

If you really want to hear about it (cit.)

Quando stavo in quarta superiore (Cazzo, ancora a raccontare di quando faceva il liceo? E' più vicino ai 30 che ai 20, qualcuno glielo ricorda? Altrimenti fra un mese tira fuori gli Uni Posca, i Cavalieri dello Zodiaco e le girelle Motta) mi è capitato di avere Antonio Scurati come insegnante di storia e filosofia.
Era un prof molto preparato e molto consapevole di sè, delle sue eccellenze e di quanto gli andasse stretta la cattedra di un liceo di provincia. Non aveva un metodo didattico chiaro e rigoroso.  Ricordo che una volta, nel mezzo di una lezione, s'interruppe e mi chiese: "Fumagalli, ma a te piace -cognome fittizio- Cinciripini?" Cinciripini stava tre file davanti a me, era simpatica e carina. "Mah, sì.." balbettai dopo aver riso, stupito e imbarazzato. Lui registrò l'informazione, espresse il suo consenso e poi proseguì con la lezione sulla Guerra dei trent'anni, o quel diavolo che era. Faceva cose così, e immagino si divertisse molto.
Spiegava con scarsa costanza, liquidava parti cospicue del programma (San Tommaso? Mai nemmeno nominato: da Sant'Agostino alla filosofia moderna in un quarto d'ora, e via) ed era tuttavia capacissimo di appassionare gli studenti alle materie che insegnava. O almeno, di appassionare me. Quei saltuari quarti d'ora di lezioni vere contenevano esposizioni originali, ispirate da un piglio battagliero, lontane da toni e registri da routine quotidiana frequentati da diversi suoi colleghi; erano lezioni molto lucide, del tutto indipendenti dai manuali di testo e zeppe di roba che -e qui sta la principale grandezza- percepivo essere utile e stimolante, roba bella e intelligente: sentivo che mi riguardava, che mi diceva qualcosa. E come accade con i migliori documentari, per una cosa che imparavo, scoprivo di ignorarne due: e le volevo imparare.

Antonio Scurati non corrispondeva allo stereotipo del prof lazzarone: ne condivideva qualche caratteristica, ma arricchiva la sua pigrizia con numeri estrosi. Per esempio, nel giorno della settimana in cui il calendario didattico gli aveva assegnato sei ore di lezione una in fila all'altra, sostituì per tutto l'anno l'ultima ora che aveva nella mia classe con un esperimento da lui battezzato "Godimento estetico". Nell'ora di Godimento estetico, ogni alunno era invitato a proporre alla classe, a turno e senza grosse regole da rispettare, materiali artistici e non che avessero suscitato in lui -appunto- esperienze di godimento, di percezione del bello, di piacere intellettuale. Dopo aver sottoposto la classe alla fruizione  collettiva, si dedicava qualche minuto alla discussione dell'esperienza con il professore. Valeva tutto. Una poesia di Dante aveva la stessa dignità di una scena madre di "Centovetrine", Sally di Vasco Rossi funzionava quanto una sonata per violoncello di Bach (al termine della quale ci chiese, con tono curioso e sincero: "Perché non si ascolta più Bach?"): e cito questi estremi perché si sono tutti verificati. In classe, recepimmo l'esperimento -non esattamente ortodosso, rispetto alle direttive ministeriali e ai classici ritardi sul programma- come un duplice vantaggio: niente lezione e chiacchiere su canzoni, libri eccetera. In una simile iniziativa, io cascai mani e piedi. Nei momenti di discussione, dicevo quasi sempre la mia. Fra le altre cose, portai questa canzone (Ah! I bagordi punk di gioventù!) e questa sequenza cinematografica: suscitando qualche scandalo e qualche "Ma che schifo!" (tutte medaglie) da parte delle mie compagne di classe più sceme, oltre a una breve dissertazione del prof sull'estetica di Tarantino e sulla sua capacità di rivisitare i cliché dei gangster-movie in chiave splatter da un lato e demenziale dall'altro. Già, perché lui era uno di quei prof che "sanno tutto", in grado di tenere in mano sia la cultura pop che l'accademia, sia le cazzatelle ironiche che i volumazzi polverosi: ci parlava di Fight Club, per farci capire l'importanza dell'habeas corpus e delle innovazioni del sistema giuridico inglese fra XVII e XVIII secolo.
Durante quell'anno scolastico, Antonio Scurati aveva in uscita il suo primo romanzo, pubblicato da Mondadori. Per noialtri studenti suoi, abituati alla mediocrità -detto senza toni spregiativi- generale del corpo docenti, era una roba piuttosto affascinante: tant'è vero che alcuni di noi parteciparono alla presentazione del libro e ne uscirono divertiti dal fatto che l'autore stesso -il loro prof!- avesse detto: "La sessualità, nel mio romanzo, è marcatamente pornografica." Anche perché in effetti lo era.
Finito l'anno scolastico, Antonio Scurati se ne andò all'università di Bergamo, e proseguì la sua carriera di scrittore con successi non trascurabili. Sulle scorte della passata ammirazione che nutrivo per lui, ho cercato di seguirlo il più possibile, leggendo tutti i -quattro- romanzi che ha pubblicato: ha vinto qualche premio letterario, ha litigato con Bruno Vespa, si è ritagliato un ruolo di opinionista in diverse trasmissioni Tv e scrive editoriali su La Stampa.

Da qualche anno, insomma, Antonio Scurati è, nel panorama nazionale, il personaggio che più si avvicina alla figura tradizionale di intellettuale: procede per massimi sistemi, parla di politica e società, comunicazione e sentimenti con la stessa pretesa disinvoltura e con lo stesso approccio cannibale. Spesso dice cose condivisibili, spesso no, ma questo è normale. Il problema è che qualsiasi cosa dica, passa sempre per grandi linee generali, per strutture e sovrastrutture, per l'erudizione e per il lessico complesso: non racconta niente di piccolo, non isola le sue riflessioni in ambiti particolari, non srotola temi circostanziati, non rinuncia alla sovrabbondanza retorica della sua prosa. Esprime osservazioni laconiche. Prende posizioni definitive. Fa l'inconsolabile. Ragiona sulle lettere maiuscole. Si prende sul serio. Ha scritto, sì, un romanzo -il mio preferito, dei suoi- costellato da una quantità straordinaria di citazioni e riferimenti a numerose opere letterarie, musicali, artistiche e cinematografiche: ma l'ha fatto tramite uno sviluppo enciclopedico, esibito, autoreferenziale. Ha dimenticato il gusto del pop e delle cazzatelle, insomma, e si è concentrato su accademia e volumazzi polverosi. Facendo ciò, ha probabilmente perso di vista una fascia di pubblico che avrebbe invece dovuto essere cara alle sorti della sua attività: noi giovinastri. Il suo è uno stile da cui trapela una forte convinzione, una solida indole agonistica che a volte rasenta toni da missione: e tutti questi connotati lo avvicinano alla sua generazione, o a quella a lui precedente; ma lo allontanano da quelle a lui successive, e la collaborazione duratura nella trasmissione di Serena Dandini intorno a mezzanotte -naturalmente su Rai3- ne è efficace testimonianza.

Qualche giorno fa, è uscito La seconda mezzanotte, il suo quinto romanzo. L'ho comprato. E' una cosa di fantascienza distopica, ambientata in una Venezia del futuro comprata da un colosso cinese delle telecomunicazioni a seguito di un'inondazione che ha cancellato le meraviglie del passato serenissimo. Come ormai abbiamo imparato tutti da decenni anni a questa parte, almeno (almeno) da George Lucas in poi, la fantascienza non è roba di astronavi e antennine e iperspazio e raggi laser. La fantascienza guarda avanti e indietro, ed è capacissima di raccontare pezzi delle nostre vite, di farci riflettere sul dove e sul quando e sul cosa mettendo in scena -cazzarola, lo sto scrivendo- intrecci immaginifici. Il primo nome che mi viene in mente: Minority Report. Arrestare uno che non ha commesso l'omicidio, che però ne ha tutta l'intenzione ed è in procinto di farlo. Giusto, sbagliato, perché sì perché no, la tecnologia, il progresso, le responsabilità individuali, le libertà personali, le minoranze, le maggioranze, la ceppa di Darko Suvin, gli eccetera. Si parte dal fantastico e si atterra sul reale, con numerosi gradienti di efficacia e di senso delle cose.
Di La seconda mezzanotte, ho letto un'ottantina di pagine e mi sono stufato. Conto comunque di finirlo, se non altro per parlarne a ragion veduta. L'impressione superficiale è che anche in questo caso il senso delle cose di Scurati tenda ad abbracciare l'enorme, l'evoluzione complessiva, il quadro globale ricorrendo al tono apocalittico, allo sfoggio profetico, alle dotte imbeccate sul declino-della-civiltà-occidentale.
Impressione superficiale. Poi magari mi sbaglio, ma ho il timore che in questo caso il cosiddetto messaggio e le tesi di fondo abbiano preoccupato lo scrittore molto più del piacere di scrivere e di farsi leggere, di sviluppare la narrazione: di raccontare una storia, insomma. 

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