lunedì 30 gennaio 2012

The destruction might in fact be very localized, limited to merely our own galaxy

Herbert George Wells è stato uno scrittore inglese attivo a cavallo fra Diciannovesimo e Ventesimo Secolo. Il contributo fondamentale della sua opera è stato quello di aver dato una forma strutturata e una dignità letteraria alla cosiddetta narrativa di genere, a lungo liquidata dalle accademie culturali come frivola e, in una parola, inferiore alla maestosità marmorea dei classici universali. 
Immaginarsi mondi, riempirli di roba, rovesciare nell'intreccio secchiate di invenzioni e svolte e capriole, insomma: raccontare storie. Raccontare storie appassionanti. Questo faceva di mestiere H.G. Wells. Decenni prima di Philip Dick e Stephen King, Chuck Palahniuk e J.J.R. Tolkien. Quelli che nell'immaginario collettivo contemporaneo sono diventati riferimenti popolari e diffusissimi (La guerra dei mondi, La macchina del tempo), sono originariamente colpi di genio di un'immaginazione, la sua, spericolata e posta tre terametri sopra l'esosfera.

Questo per dire che quei bravi ragazzi della Bonelli, a un certo punto, si sono resi conto che Dylan Dog aveva bisogno di qualche personaggio secondario in più: qualcuno che saltuariamente finiva dentro una puntata e dava una mano all'indagatore romantico per portare a casa il finale della vicenda. In virtù delle caratteristiche dell'albo, in costante equilibro fra scetticismo e paranormale, razionalità e assurdo, se ne sono inventati due: la medium Trelkowsky e lo scienziato H.G. Wells. 
H.G. Wells è un tipo piuttosto simpatico: stralunato, permaloso, incostante, raffinato, più britannico del cambio della guardia, colto da fare schifo, inventore di apparecchi bizzarri ma sempre decisivi, ed eccentrico quanto basta per far infuriare Groucho, confondendolo sempre con l'inesistente maggiordomo di Dylan.
Una delle caratteristiche più divertenti di Wells è il registro lessicale a cui ricorre nella vita quotidiana: parla in un modo che sta a metà fra l'istruttore di un principe della famiglia reale del XVII Secolo e una circolare del Ministero delle poste: "Beh, non sono affari miei, Dylan, ma credo dobbiate inoltrare vibrata protesta all'agenzia che vi procaccia la servitù! Oso dire che come maggiordomo era perfino meglio l'assurdo baffone di prima, piuttosto."
Questo per il come. Quanto al cosa, se non sta riflettendo ad alta voce su qualche assurdità scientifica, in qualche modo si avvicina ai personaggi witty e salottieri alla Oscar Wilde: "Oh, la verità! Chi dice che esiste è un bugiardo!"
Fra le esclamazioni più ricorrenti e spassose di Wells, c'è senza dubbio "Anzichenò". Non che abbia molti significati, la parola Anzichenò: ha la funzione di attribuire un tono enfatizzante al concetto espresso nella frase, e la svolge mettendo in fila tre parolette il cui significato complessivo, tu guarda, è .
A me faceva spaccare ogni volta, Wells, quando diceva Anzichenò. Perché è una parola perfettamente inutile, che si presta a intenti ironici e ludici (Nessuno di noi va mai, davvero, sinceramente, in "brodo di giuggiole" per qualcosa) ma che lui usava con naturalezza. Ha la capacità di evocare sia l'inclinazione britannica all'understatement che un certo orgoglio di raffinatezza aristocratica. Ci sono dentro eleganza e stravaganza, tazze di tè e cappelli bizzarri. E poi c'è la garanzia della possibilità di frequentare quella stessa parola, talvolta, per fare la parte dell'intelligente/stupidino che calza tanto a pennello.


Titolo e foto del post dedicati a un altro personaggio debitore della figura di H.G. Wells (quello vero). La scena è questa. L'idea che uno scienziato possa essere ottimista nell'ipotizzare la "mera" esplosione dell'intera galassia in cui vive è una roba arguta e piacevole: dice tutto dei magici mondi che affollavano la testa dello scrittore. 

"Mi dia il 21% in più, che lo devo versare alle finanze pubbliche. Anzi, facciamo così. Mi dia il 21% in più: lo dovrei versare alle finanze pubbliche, e invece me lo tengo io."

Con questo post, si viene a ricordare ai cittadini italiani tutti - e nella fattispecie ai frequentatori di bar,  ristoranti e altri esercizi commerciali - la dimensione duplice del furto subito dall'attività degli esercenti che non emettono regolare scontrino fiscale.
La prima dimensione è legata alla sfera collettiva, al tema più ampio dell'evasione fiscale generica: la mancata denuncia della cessione di beni e/o della prestazione di servizi consiste nella sottrazione di una percentuale imponibile da versare nelle casse dello stato. 
Alla dimensione dell'illecito perpetrato ai danni della comunità, si aggiunge tuttavia l'esecuzione di un reato più silenzioso - ma non per questo meno dannoso - la cui vittima è identificata nel consumatore, nell'istante medesimo in cui si occupa di adempiere al pagamento. Nel saldo della cifra che dev'essere corrisposta al commerciante, se da un lato è compresa l'applicazione percentuale del valore aggiunto del bene e/o servizio che viene scambiato, dall'altro - alla luce del mancato rilascio dello scontrino - risulta automatico e inevitabile che quella stessa percentuale non viene registrata su un documento disponente valore fiscale e di conseguenza non può che avere come unica destinazione, ancora, il reddito del commerciante medesimo. Il quale, in ultima analisi, nel momento stesso in cui richiede al consumatore il pagamento del valore aggiunto, evade l'imposta medesima in ragione della quale ottiene il denaro richiesto. 

Descritto in termini più prosaici, porcogiuda, gli esercenti che chiedono l'IVA ma non emettono lo scontrino, ti rubano i soldi. E non è che te li rubano in quanto membro di una collettività alle cui casse pubbliche non versano i contributi previsti dalla legge: o meglio, non solo. Te li rubano in quanto membro della collettività, ma te li rubano anche in quanto privato cittadino, chiedendoti denaro che dovrebbero dare allo stato e che invece si mettono in tasca. E quindi lo rubano a te. In quel momento. Poi, con calma, in un secondo tempo, che fretta c'è, lo portano via anche all'intera comunità di cui fai parte anche tu.

Il titolare di questo blog ringrazia l'autore di questo post, che illustrando le caratteristiche di quella piovra a cento teste che è il pre-conto, ha illuminato il lettore anche sulle dinamiche della materia.

venerdì 27 gennaio 2012

Als die Nazis die Kommunisten holten

Oggi è la giornata della memoria: ora può pure passarci un tir di traverso, a questa frase, ma insomma oggi è la giornata in cui si ricorda lo sterminio perpetrato contro ebrei e altre minoranze nei campi di concentramento nazisti durante la Seconda guerra mondiale.
Oggi è il giorno dell'anno in cui le vostre possibilità di frequentare la riflessione attribuita a Brecht (Prima vennero a prendere gli zingari, per capirci) s'impennano e arrivano a fondo scala. In tele, a scuola, sui socialini, sui giornali: ovunque. La cosa strana è che quella riflessione la si può leggere in una quantità di versioni diverse: cambiano le comunità, i gruppi, l'ordine con cui vengono deportati; in certi casi cambia anche l'impostazione stilistica. 
Allora io mi sono armato della pistineria che mi contraddistingue in questi casi, e ho cercato di fare un po' di chiarezza filologica sulla natura della questione tutta. Anche perché il riferimento colto quando si parla di shoah ci sta: quello che ci sta un po' di più è conoscerne la storia. Altrimenti diventa una dedica di Jim Morrison sul diario. Di quelle scritte con l'Uni Posca. Voglio dire. 

E insomma, soprattutto grazie alla pagina messa su da un professore di storia tedesca dell'università di Santa Barbara, ho scoperto queste cose:

1) La riflessione è attribuita a Brecht, appunto. Non è originariamente sua. E' di Martin Niemöller, teologo e pastore protestante tedesco. 
2) Martin Niemöller fu prigioniero in diversi lager per otto anni. Superata la terrificante esperienza, ha ripercorso e approfondito gli anni di costruzione del consenso e di arrampicata al potere di Hitler. Subito dopo la guerra, si convinse che una grossa responsabilità della tragedie legate al nazismo fosse del popolo tedesco. Un elemento notevole della sua analisi sta nelle intenzioni di autocritica da cui nasce:
When the Nazis attacked the Communists, he was a little uneasy, but, after all, he was not a Communist, and so he did nothing; and then they attacked the Socialists, and he was a little uneasier, but, still, he was not a Socialist, and he did nothing; and then the schools, the press, the Jews, and so on, and he was always uneasier, but still he did nothing. And then they attacked the Church, and he was a Churchman, and he did something--but then it was too late."
3) Nel novembre del '45, Niemöller si recò in visita a Dachau, dove le stanze dei forni erano mantenute ancora intatte. E' abbastanza certo che la citazione abbia iniziato a ronzargli in testa proprio in quell'occasione. 
4) Buona parte della confusione relativa alle esatte parole della riflessione è responsabilità di Niemöller medesimo, che in successivi dibattiti pubblici la citò rimescolandone gli elementi, e creandone di volta in volta versioni nuove.
5) Dal gennaio al maggio 1946, in molti suoi sermoni Niemöller parlò di comunisti, disabili ed ebrei. Talvoltà, citò i Testimoni di Geova. Sembrano essere questi
6) Successivamente, incluse molto anche sindacalisti e socialdemocratici. Infine cattolici e protestanti.
7) Insomma, non si sa con certezza. Ma molto probabilmente la versione originale è quella roba qui, con i sindacalisti al posto dei disabili:


martedì 24 gennaio 2012

Comunque/2

Mi trovo per un'altra volta molto soddisfatto delle dichiarazioni del Ministro della giustizia, che con un'affermazione laconica ed equilibrata ha ricordato quello che probabilmente è il più ingombrante elemento d'inciviltà dello stato in cui viviamo:
Il carcere è, sì, un luogo di espiazione, ma non deve perdere di vista i diritti dell’uomo. L’uomo in carcere è un uomo sofferente, che deve essere rispettato. Oggi invece il carcere è una tortura.
Tutto qui, quello che c'è da dire. Il carcere è un'istituzione necessaria a qualsiasi comunità, nella misura in cui garantisce la reclusione fisica di chi si è dimostrato inadeguato alle prassi della convivenza quotidiana e pericoloso per l'incolumità del prossimo.
Il carcere in Italia, però, aggiunge alla pena stabilita dal giudice una quantità di pene accessorie provocate dalla negligenza dei poteri competenti e dalla mediocrità delle decisioni prese in materia. La reclusione nelle nostre prigioni, in quanto tale, impone ai condannati vessazioni non sancite dal potere giudiziario che li ha condannati, ma determinate dallo stato di abbandono e deficit strutturale, economico e umano di cui soffrono le nostre prigioni. Il cui scopo, già che ci siamo, è quello di rieducare gli imprigionati in vista del giorno in cui torneranno a convivere con il resto della comunità.

E quella situazione qui, non è che fa schifo secondo me: fa schifo e basta.

Comunque

Mi sembra che le obiezioni alle parole di Martone siano più concentrate a commentare la sua famiglia e il suo percorso personale che non le parole stesse. Le cose hanno un valore indipendente da chi le sostiene. Si commenti il contenuto della dichiarazione, non chi l'ha rilasciata.

lunedì 23 gennaio 2012

L'isola dei tagliagole, o dei budget sperperati

C'è un amichetto mio che al cinema va matto per le tamarrate col fischio, quelle con l'attorone carismatico e indistruttibile, con la roba che salta per aria, con le sequenze dalla verosimiglianza discutibile: quelle che un editorialista di Repubblica definirebbe -mon dieu- americanate. Su queste cose, io a volte lo seguo e a volte no: stravedo per le punte di diamante tipo L'ultimo boy-scout o Die-Hard 3 ma altre visioni fatico a reggerle. Poi lui guarda anche altro, naturalmente: è per esempio a lui che devo il consiglio di vedere quell'opera totale che è Il settimo sigillo di Bergman. 
Qualche tempo fa, mi ha raccontato di un film la cui visione si era rifiutato di terminare. Era troppo brutto, diceva. Allora se n'è andato dalla sala prima della fine. Tutti incuriositi da un disgusto così radicale da parte di una sensibilità cinematografica foderata di titanio come la sua, ci siamo messi d'accordo per vederlo insieme. Si trattava di E venne il giorno, un film di Shyamalan: una cosa di fantascienza apocalittica con una famiglia americana incasinata nel mezzo della questione. Guardare quel film è come incontrare un tale ubriaco che, siccome non sta in piedi, blatera cose incomprensibili a un palmo dal tuo naso, verso il quale alita una puzza storta di vino scadente. Nemmeno a essere indulgenti e di bocca grossa e a chiudere gli occhi, si riesce a trovare un elemento sopportabile, in E venne il giorno. E parliamo di un film: cioè di una cosa a cui lavorano centinaia di persone. A un certo punto il protagonista implora pietà a una pianta. Seriamente, con un certo trasporto drammatico: si avvicina a una pianta e le chiede pietà. Allora produci la sacrosanta bestemmia e vai a farti un tè. 
Dal dibattito scaturito da quella visione, siamo venuti a conoscenza di un film che detiene il più tremendo record della storia del cinema: è il più grosso fallimento commerciale di sempre. Costato 115 milioni di dollari, ne ha incassati 10. Allegoria.
L'abbiamo visto ieri sera. Corsari (il cui titolo originale è il più affascinante Cutthroat Island) è uscito nel 1995, ed è un film d'avventura fatto a forma dei film d'avventura: duelli, colpi di cannone, scimmiette, marinai sporchi, tradimenti, funi che si spezzano, lampadari che si trasformano in liane, un tesoro da recuperare. Ecco, primo difetto del film: non c'è mai un momento in cui le motivazioni di mettere le mani sul tesoro siano condivise, drammatiche, coinvolgenti. Sono pirati, cercano un tesoro. Fine. Ho capito, ma è il caso di condirla un po', la menata di fondo, altrimenti sono topi che cercano il formaggio.
Poi, dal punto di vista formale (parentesi: certi film, bisogna vederli nella forma in cui sono stati pensati, e cioè su uno schermo enorme, accompagnati da una musica ad altissimo volume. Corsari è uno di questi) è fatto bene: ci sono un sacco di panoramiche aeree delle navi, gli scenari spaccano, le ricostruzioni dell'epoca sono fedeli, le comparse sono centinaia, la colonna sonora ha un senso, gli inseguimenti e le battaglie si srotolano con un loro ritmo intenso, l'esplosione finale della nave è perfetta. Si ha la sensazione che una bella fetta di budget sia finita qui, e che sia stata spesa bene.
Il problema del film è che pur funzionando decentemente sul piano dell'avventura, non funziona mai sul piano della commedia: ci saranno almeno 20 stacchi nei dialoghi in cui un personaggio dice una cosa divertente nelle intenzioni ma banale nei risultati. E si capisce facilmente che il regista prevedeva una risata del pubblico, in quel momento lì, ma di ganasce che sbattono nemmeno l'ombra. E poi il film è debolissimo nei personaggi: non ci si affeziona ai buoni (né alla Geena Davis caparbia e vigorosa né al Matthew Modine "spiritoso" e sempre nei guai) e non si è affascinati dai cattivi (già, ce ne sono due: quello istituzionale e quello piratesco). Non c'è mai, nemmeno brevemente, un attimo di introspezione psicologica: sono tutti quanti delle etichette che ripetono le battute nel rispetto dei cliché del caso. I personaggi secondari, inoltre, sono del tutto inutili. Nemmeno la scimmietta dà molte soddisfazioni.
A quanto ho letto qui e qui, le ragioni per cui il film è stato un simile disastro sono legate a una quantità di sprechi in produzione, alla strategia pubblicitaria non abbastanza aggressiva e alla difficoltà di ricreare un immaginario evocativo e attraente dei Caraibi in funzione di una pellicola che viene distribuita, voglio dire, pure voi, cazzarola, a natale. 
Dovessi fare la cosa di dare un voto, darei un sei, percependolo come un mezzo regalo. E però ne ho scritto qui perché è un film tanto sfigato da meritare un po' di simpatia. 

venerdì 20 gennaio 2012

Date retta a un pirla

Vi sfido. 
Vi sfido a tentare di ragionare costruttivamente con qualche vostro amico che sulla propria pagina di Facebook ha incollato questa roba qui. Si tratta dell'espressione più fiammeggiante del qualunquismo, della ridicolizzazione di qualsiasi tema a uno slogan, a una battuta da bar. E' una specie di musical della pancia di un sacco di elettori, là fuori, che fanno dell'indignazione regolare e sistematica una moneta di scambio politico. Come se essere indignati, di per sè, equivalga ad avere ragione. 
Provate a fare un commento che, per dirne una, esponga e spieghi le ragioni giuridiche per cui Schettino non è in carcere ma ai domiciliari. Provate a scrivere che Schettino non può inquinare le prove, non può reiterare il reato e che la sua condizione attuale non configura il pericolo di una sua fuga. Provate a sostenere che senza uno di questi tre motivi non si può mettere preventivamente in carcere nessuno: nessuno. Provate ad affermare che le ragioni per cui Schettino non è in carcere sono buone, perché sono rispettose di un principio basilare come quello della libertà personale in uno stato di diritto. Provate a sostenere che la procura di Grosseto ha fatto ricorso contro la disposizione del gip, e che quindi non ci sono complotti, diobuono, ma che più normalmente dentro la magistratura stessa c'è dissenso sulla decisione di non ricorrere alla misura di cui sopra. Provate a sostenere che il processo in cui Schettino sarà imputato inizierà più in là nel tempo: e solo al termine di quello, qualora venisse giudicato colpevole, andrà in carcere.
Più in generale, provate a spiegare ai vostri interlocutori che se le cose -tutte quante, eh- sembrano loro così profondamente ingiuste, sbagliate, marce e puzzolenti, beh, probabilmente è perché non le conoscono a sufficienza; che se non hanno una spiegazione immediata non significa per forza che ci sia sotto qualcosa, ma che si tratta di questioni complesse. E, a causa di questa complessità, molti elementi possono sfuggire, o essere suscettibili di diverse interpretazioni. 
Io vi sfido, voi provate: poi mi dite com'è andata.
E attenti: perché a loro non la si fa. Loro la sanno lunga.

giovedì 19 gennaio 2012

Il mondo è piccolo, ma anche tanto divertente

Leggendo online cose su Alan Ball (sceneggiatore di American Beauty e creatore di quel capolavoro di Six Feet Under oltre che di True Blood) si scopre che gli piace molto collezionare pappagalli. 
Gli piace talmente tanto che ne ha la casa imballata. Ne ha la casa talmente imballata che le bestiole producono un casino fastidioso. Il casino è talmente fastidioso che il vicino di casa di Ball gli ha intentato una causa in ragione delle "urla disgustose simili a quelle di pterodattilo" che provengono dall'abitazione. Le urla sono talmente di pterodattilo che il vicino di casa di Alan Ball è Quentin Tarantino. Quentin Tarantino è talmente Quentin Tarantino che pensa di conoscere il suono che scaturisce dalle urla degli pterodattili.

mercoledì 18 gennaio 2012

Vede la fine, in metropolitana

Sam Peckinpah è stato un capacissimo regista che si faceva i cazzi suoi. Viene facile definirlo incazzato, rock'n'roll, trasgressivo. Lui però si faceva i cazzi suoi, e nel frattempo ispirava l'orientamento cinematografico di gente come Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Il suo capolavoro s'intitola Il mucchio selvaggio, e racconta in chiave western la storia disperata e violentissima di una storia di disperazione e violenza. Il film è poderoso, insomma, e questo lo sanno pure i comodini. Il culto di cui ha goduto e la risonanza che ha avuto hanno fatto inoltre una quantità di giri nelle teste delle generazioni successive, fino a diventare anche il nome di una rivista italiana. 
Il mucchio selvaggio è una rivista che esiste da un botto di anni. Parla di musica e di cinema, di arte e di politica: si rivolge a una nicchia di mercato che preferisce cercarsi consumi culturali indipendenti, parla prevalentemente a un pubblico molto appassionato di roba underground, ancora abituata (pensa un po' che gente che c'è in giro) a comprare dischi e ad andare al cinema. Quando frequentavo i corsi universitari, andavo spesso alla Mondadori in Duomo a leggerlo a scrocco. Grazie alle sbarcate di recensioni, ho scoperto gente come Sufjan Stevens e Ben Folds, i Mars Volta e Alexis Murdoch. Vogliamo dire che è una rivista di sinistra fatta a forma delle riviste di sinistra? E diciamolo, che del resto i neGri hanno tutti quanti il ritmo nel sangue.
Da qualche giorno, al Mucchio, in risposta alla crisi di cui soffre la rivista da quando sono molto diminuiti i contributi statali all'editoria, hanno messo in piedi una campagna abbonamenti. Ne servono duemila prima della fine del mese, dicono, altrimenti puppa. Stanno a novecento, ora, e chissà se ce la faranno. Il nuovo direttore ha scritto un editoriale pubblicato anche sull'homepage del sito. A un certo punto, dice una cosa su cui vale la pena riflettere:
Il motivo peggiore per cui una rivista chiude - ed è quello che sta accadendo al Mucchio - è quando non ci sono più i soldi per farla. I tagli retroattivi del 15 percento al fondo per l’editoria e quelli del 50 percento decisi per l’anno a venire ci fanno temere il peggio. Dobbiamo muoverci per farne a meno e dobbiamo farlo subito.
Il tema dei contributi statali è una roba vecchia. Sappiamo che praticamente qualsiasi pubblicazione della Repubblica ne fruisce (fra i più rilevanti, solo Il Fatto ne fa a meno) e anzi che senza quei gruzzoli molte delle pubblicazioni si troverebbero costrette a fare quello che sta facendo il Mucchio. Non sono felice che Il Mucchio chiuda, naturalmente. Però, per fare economia da bar, se chiude è perché non ci sono lettori e se non ci sono lettori è perché la competizione di altre riviste (tipo Rolling Stone e XL fra le più grandi, tipo Blow Up e Rumore fra quelle più vicine al Mucchio) è vincente sul mercato. Non si tratta di un disastro o di uno scandalo, come sostengono molti affezionati alla rivista su Facebook. Ed è un impoverimento dell'offerta solo da un punto di vista molto limitato. I limiti li pone il mercato, come al solito. I vecchi collaboratori e redattori del Mucchio, quelli più bravi e competenti, andranno a fare altro, a scrivere in altri giornali, magari più solidi sotto il profilo del bilancio e più diffusi dal punto di vista quantitativo. Potranno essere letti da più persone, forse, o forse no: il problema è che Il Mucchio può pure essere il giornale più figo del mondo, ma non esiste senza lettori. Un po' come questo blog, del resto.

martedì 17 gennaio 2012

Dostoevskij diceva che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. Ma pure il ministro della giustizia è una roba interessante

C'è stato prima quel coso di Roberto Castelli, poi l'improbabile Clemente Mastella e infine l'anonimo Angelino Alfano. Adesso al Ministero della Giustizia c'è Paola Severino. Non è un ingegnere per l'ambiente e il territorio come il primo (che peraltro era il tipico manettaro leghista), non è un democristiano trafficone di lungo corso come il secondo, non è un giovane ambizioso solerte alla soddisfazione delle richieste del capo, poi rivelatesi incostituzionali, come il terzo. 
E' un ministro della Giustizia che dopo la laurea si è fatta il mazzo come ricercatrice, ha studiato insieme a un pozzo come Flick e ha messo in piedi una carriera universitaria che l'ha portata alla presidenza della facoltà di giurisprudenza di un'università romana. E' una che ne sa a pacchi, una che a differenza del coso non andrebbe mai in Tv a dire "Se uno fa un reato", una che ha presentato una relazione annuale lucida, rigorosa, spaccacapelli.
Poi stiamo a vedere in che modo mette le mani su uno degli ambiti più tentacolari, arrugginiti e disastrati della repubblica, ma intanto brava: brava. 

ps: lo so, probabilmente il mio applauso al suo pur breve e ancora poco concreto operato appartiene al tema più ampio della disabitudine di avere a che fare con ministri preparati, competenti e affidabili. Ma siamo nuovi di questo mondo, lasciatemi un po' d'entusiamo.

"Vada a bordo, cazzo" è il nuovo "Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi: chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro paese"

Sulla notizia della giornata, ho letto qui una riflessione probabilmente viziata da un sovrappiù di retorica ma condivisibile nei contenuti: 
Vorrei dire una cosa a nome di tantissimi: siamo davvero stanchi di stare in prima linea, abbiamo bisogno di un capitano, uno che è da piangere quando lo senti così teso in tutta la sua lucida visione globale della complessità della vita. Della gestione della crisi. Uno a cui non sarà piaciuto per niente dire determinate cose; uno che immaginiamo non passi le giornate a pensare di fare il culo blu agli inetti e che però ne è capace, quando è il momento di. Ascoltatelo quando fa goal in tre passaggi: «lei non deve fare altre considerazioni, vada a bordo, è un ordine. Lei ha dichiarato l'abbandono nave, adesso comando io» Ascoltate le parole del capitano De Falco, perché fanno bene al cuore. Perché se vi interessa sapere se questa nazione avrà un futuro o meno, potrete sperare di sì, se e solo se ci sono più De Falco e molti meno improvvisati adolescenti che si pesano le palle ogni mattina, scoprendo di non averne un etto, qualora servissero.

Laura Palmer senza i lama nel negozio

Una delle cose migliori di avere un fratello maggiore di qualche anno è la possibilità di entrare facilmente in relazione con il mondo dei più grandi e conoscerne e possederne pezzi consistenti, di qualsiasi tipo. Nella fattispecie, a livello di consumi culturali con me ha funzionato particolarmente fra la fine delle elementari e il primo anno di liceo con le canzoni degli Articolo 31 e di alcuni gruppi metal, con certi film dell'orrore, con i primi romanzi di Enrico Brizzi, con il collezionismo delle carte di Magic e con gli albi a pubblicazione mensile di Dylan Dog.
Dylan Dog era una cosa incredibile da leggere, dai 10 ai 18 anni. C'era dentro un eroe colto e divertente, romantico ma non melenso, lastricato di buone intenzioni e afflitto da una quantità di fobie infantili. C'erano personaggi secondari appassionanti, mostri e mostriciattoli molto più concreti e tremendi e perturbanti del messaggio complessivo (ah!) secondo cui in fin dei conti il mostro vero è l'uomo stesso, c'erano Londra e altri pezzi del Regno Unito. E poi c'erano le storie: scritte da un sacco di sceneggiatori diversi ma tutte con i piedi ben piantati nella cultura fumettara da un lato e nell'immaginazione del lettore dall'altro. Gli elementi del quest si scioglievano un pezzo alla volta, la ridondanza del lato sovrannaturale era efficacemente controbilanciata dallo scetticismo del protagonista, i colpi di scena cadevano pennellati e quasi mai forzati. Funzionava un sacco.
Qualche tempo fa, chi si ricorda dove, ho letto un'intervista a uno sceneggiatore di Dylan Dog che spiegava un cambiamento secondo lui determinante della concezione dell'albo. Lui cercava di non schierarsi, rispetto a questa roba, ma secondo me la considerava un passo indietro giustificato principalmente da una trasformazione dei gusti dei lettori (e dai necessari balzelli anagrafici correlati). Si tratta dell'idea dell'ottovolante, cioè di costruire l'impianto narrativo a partire dallo scopo prioritario di disorientare il lettore con ribaltoni costanti, misteri che si accavallano senza essere dipanati, confusione del tempo della storia, scatole cinesi che stanno dentro un pendolo di Foucault che sta dentro gli ingranaggi di un orologio che sta nella tasca di un personaggio che in tutta la trama ha il solo compito di tossire in secondo piano, in dissolvenza. Il problema di quest'accumulazione salta fuori nel finale, al confronto col quale c'è troppa roba da tenere in mano contemporaneamente: invece di confluire tutti nelle ultime pagine, molti elementi introdotti in precedenza sono abbandonati, trascurati, affrontati con soluzioni traballanti. L'ottovolante: parti, fai centosei giri della morte, e scendi a un metro da dove sei partito. Il tema non è relativo solo i fumetti o Dylan Dog, naturalmente. Basti pensare a film come Vanilla Sky, o, ancora, alle capriole di Lost e compagnia bella.
Comunque: a un certo punto, Dylan Dog è diventato così. Complessissimo e arrovellato nello sviluppo, aggrovigliato e deludente nei finali. E se mi tiri scemo scemissimo scemerrimo ma il finale non sta in piedi, beh, preferisco Agatha Christie.

E a proposito di Agatha Christie, sto vedendo una serie Tv che è la testimonianza più efficace di quella modalità classica ed elegante di mettere in piedi un racconto avvincente e tirascemo, ma sobrio e ordinato. Si chiama The Killing. Quello che mi piace di The Killing è il suo essere esattamente agli antipodi dell'ottovolante. The Killing se ne sta. Essenziale e con un suo orgoglio manierista, racconta la storia di un'indagine relativa all'omicidio di una diciassettenne. Rende conto delle implicazioni politiche, del dolore della famiglia, del tema del terrorismo islamico, dell'intersezione fra storie collettive e questioni private e di qualsiasi sbattere d'ali di qualsiasi farfalla. Ma prende convinte distanze dall'incasinamento programmatico, dalle istanze di decostruzione narrativa che vanno tanto per la maggiore in un sacco di serie contemporanee. Con il suo caro vecchio rapporto di causa ed effetto, va da A a B, da B a C e così via. In The Killing capisci tutto, non ti senti mai perculato dagli autori e ti affezioni all'atmosfera piovosa e opaca di Seattle. Cosa di cui erano in grado solo Nirvana e Pearl Jam nei giorni migliori.

lunedì 16 gennaio 2012

Però Ti presento i miei è un bel film

Qualche tempo fa, ho scritto una convinta apologia del Pd e delle persone che ne decidono le sorti. Un minuto fa ho visto queste, e mi sono cascate le braccia. Non sono esperto di comunicazione (non sono esperto di nulla, a pensarci bene) ma le scelte cromatiche mi sembrano invasive, i riferimenti al tricolore faciloni e lo stile delle didascalie sembra confondere il bello della semplicità con il brutto gli stereotipi.

Dai diamanti non nasce niente, ma dalla Berkshire Hathaway salta fuori qualcosina

Stavo guardando un documentario su Warren Buffett sul sito dei soliti benefattori. Warren Buffett è uno degli uomini più ricchi del mondo. E' ricco, ricchissimo, tanto di più: si stima che il suo patrimonio personale superi i 50 miliardi di dollari. Potenzialmente, potrebbe anche passare intere giornate spaccando televisori con lo schermo al plasma sulle ginocchia. Ma tipo otto ore al giorno. Hai presente la noia.
Il documentario è molto interessante da questo punto di vista, perché racconta che Warren Buffett è un tipo molto poco eccentrico e stravagante, rispetto agli standard che uno si aspetta dall'enormità del suo conto in banca. Ha una casa bellissima, grandissima ma normalmente bellissima e grandissima. Le sue auto sono bellissime e grandissime, sempre in modo normale. A un certo punto, vuoi la generosità encomiabile, vuoi la demenza senile, vuoi l'ambizione di non morire venendo considerato un riccastro più o meno stronzo, Buffett ha deciso di mollare gradualmente il 99% del suo patrimonio alla fondazione filantropica di Bill Gates e moglie. C'è dentro un sacco di roba nel documentario: si scopre anche che Warren Buffett va matto per il cibo spazzatura. Lo stereotipo prevede che lui sorseggi Dalmore 62 (whisky più costoso del mondo: 125.000 sterline la bottiglia) fumando prelibatezze cubane? Ecco, lui di sera si tira una lattina di coca-cola, invece: peraltro possiede un bel pezzo (il 7%, per dire) della multinazionale in questione. E probabilmente la cifra vera della sua eccentricità è l'assenza dell'eccentricità, la sua stravaganza profonda è quella di essere un quindicenne che vive nel corpo di un ottantenne inopinatamente strapieno di soldi. Non lo so. Però te lo vedi. Te lo vedi che comincia da ragazzino con le scarpe vecchie, i capelli sporchi e la testa piena di sogni: gira per le case del quartiere vendendo robetta, si smazza i week-end nel negozio di papà, accumula i pochi dollari con sentimenti dritti all'incrocio fra orgoglio e pertinacia. Da lì al primo investimento finanziario (11 anni, in società con la sorella), dal primo investimento agli studi universitari (con tanti saluti alla retorica marcia italiana sintetizzabile con lo slogan tremendo Dà retta a un pirla. Questo ha preso un master in economia alla Columbia, e fine) e dagli studi universitari a una carriera che ci vorrebbero un paio di Kubrick, per raccontarla efficacemente.

Ma come succede spesso, il motivo per cui ho scritto questo post è molto collaterale all'argomento principale. C'è che ho scoperto questo, grazie al documentario. Lo spot natalizio anni '80 della coca, quello coi ragazzi che vorrebbero cantare insieme a me con la candela in mano, quel monumento promozionale della nostalgia precotta e ruffiana che i miei coetanei si ricordano tutti molto bene, non è originalmente italiano. Io pensavo di sì. E' una roba rivisitata da uno spot simile messo su nel 1971 dai fratelloni americani, invece. In Italia, è stata trasmessa dal 1983 al 1990. Il che la dice lunga sul ritardo di protagonismo nella modernità di cui soffriamo con la terra dei liberi e dei coraggiosi.

venerdì 13 gennaio 2012

I walked with a Tv Drama

Sappiamo più o meno tutti che gli zombie sono cosi che si trascinano indolenti e affamati negli horror, che prima di essere quello sono un prodotto dell'incrocio dei riti vudù diffusi e praticati ad Haiti con la cultura già a sua volta contaminata ed eterogenea di New Orleans. Da lì al film di Romero, ci sono di mezzo i vampiri di Matheson in I am Legend: ma poi si andrebbe per le lunghe. 
In questi giorni, ho visto le sei puntate della prima stagione della serie Tv The Walking Dead. Funziona un sacco, non solo per gli zombie -che peraltro sono quelli che piacciono a me: tanti, stupidi e soprattutto lenti: a un certo punto sono usciti film in cui gli zombie correvano. Tipo 28 giorni dopo. Ma cosa ti corri che sei uno zombie? Vabbè- ma per il piano di lettura della sopravvivenza di una manciata di individui alle prese con un fenomeno aggressivo alla cui comprensione sono inizialmente sottratti. Da questo punto di vista è un po' come Lost, The Walking Dead. E nonostante ci siano i cosi affamati l'impianto generale è più realistico e strutturato. Ha un andamento lento e intenso in cui le rare accelerate sono efficaci senza essere tamarre, spettacolari senza essere cretine.  Ci sono i bravi e i brutti, i buoni e i cattivi, e ognuno ha le sue ragioni. Insomma mi piace un sacco, The Walking Dead. Altro che quei pappamolla dei naufraghi.

lunedì 9 gennaio 2012

Non è peccato, e non è Marx ed Engels

Carcarlo Pravettoni era uno dei personaggi più divertenti degli anni d'oro dei gialappi a Mai dire gol. Era interpretato da Paolo Hendel, e aveva la caratteristica di essere tanto ignorante quanto cinico, tanto surreale quanto verosimile. Una delle sue battute più efficaci sta qui, e faceva così: "Sono strani, questi poveri. Vivono in case malsane, fredde e umide. Mangiano poco, e male. Vi sembran furbi?! Se la cercano."
Lo sketch c'entra sì e no, forse più no che sì, con quello che sto per scrivere ma mi è rimbalzato in testa subito dopo aver assistito all'intervista di Fazio a Monti ieri sera. Tra le tante cose equilibrate e sagge (e interessanti, come la sintesi delle evoluzioni storiche del mercato finanziario negli ultimi 50 anni) che ha detto, il presidente del consiglio ne ha detta una che probabilmente va di traverso a molti giovinastri più o meno di sinistra come me. Ma è una cosa giustissima che non deve essere percepita come antitetica alle istanze di giustizia sociale, semmai come suo principio complementare. Monti ha detto che la ricchezza è un valore. Essere ricchi non è una colpa, aggiungo io: è un merito o una fortuna, o entrambe le cose.  Godere di un benessere superiore alla media della popolazione è una cosa di cui essere orgogliosi nel primo caso e consapevoli nel secondo. Orgogliosi e consapevoli: niente di più, niente di meno. (Si parla di ricchezza accumulata nel rispetto della legge, naturalmente: non fate i piripiri nello spazio dei commenti.) (Che poi con chi parlo? C'è un commento ogni 10 post, qui.) (In ogni caso ci siamo capiti.)

Da questa banale riflessione potrebbero scaturire ulteriori considerazioni sulla natura tutto sommato feconda dell'invidia come sentimento di progresso personale e non come canale emotivo di odio del prossimo, quando esercitato con modalità costruttive ed equilibrate: ma facciamo un'altra volta.
Ps: ha detto anche che le tasse bisogna pagarle, naturalmente. E il suo stile di vita complessivo è refrattario a qualsiasi atteggiamento sbanfone come quello scolpito nella memoria collettiva da questo spezzone qui.
Pps: non mi ricordo più dove ho letto una cosa per me essenziale nella formazione personale dei criteri di orientamento tramite cui giudicare ruolo e statura di un politico. La sintesi di quell'insegnamento fondamentale è il seguente: se non usciresti a berci una birra ma vorresti averlo a fianco il giorno in cui ti presenti in banca a chiedere un mutuo per la casa, è opportuno considerare l'idea di votarlo.
Monti corrisponde: mi sento rappresentato da lui solo in una certa misura, ma da ieri sera sono un suo sostenitore.

domenica 8 gennaio 2012

Il comico che faceva nitrire i cavalli

Mi sono sempre appassionato ai piccoli universi che stanno dentro a dettagli di poco spessore, agli aneddoti che girano attorno alle cazzatelle, ai batuffoli di cotone dell'ombelico.
Per questo motivo ho accettato, qualche tempo fa, di andare a trovare documenti e testimonianze relative ai celebri nitriti fuori scena che echeggiano in seguito a tutti i riferimenti a Frau Blücher in quel film là.
Mi ci sono messo con la razionale consapevolezza di non saper cavare un ragno dal buco, naturalmente.
Ne è uscita quella fanfaronata qui sotto. 

La prima roba verificata è che nel 2009 Cloris Leachman (Frau Blücher nel film) ha raccontato di quando Brooks le disse che il nome del suo personaggio era la parola con cui i tedeschi definiscono la colla. Questa interpretazione sta alla base di un punto di vista secondo cui, visto che dai tendini dei cavalli si ricava la colla, il nitrito dell'equino esprime la preoccupazione della bestia stessa al sentire la pronuncia -appunto- della parola colla.

Ma "Therein, as the bard would tell us, lies the rub" (cit). Intanto perché i cavalli non sono tette, e la colla non è latte. Cioè: mica si ricava solo dai cavalli, la colla. Che poi, solo a dirla ad alta voce, uno si accorge di quanto sia strampalata l'affermazione "La colla si ricava dai cavalli". Dai. Su. E poi, oserei dire soprattutto, perché colla in tedesco non si dice Blücher. Taac

Una successiva vulgata individua una relazione significativa nell'omonimia fra la Frau del film con il generale prussiano Gebhard Leberecht von Blücher, che i libri di storia ricordano per aver fatto -insieme ad altri, soprattutto agli inglesi, God save- il culo a strisce a Napoleone Bonaparte: prima a Lipsia e poi a Waterloo. Andava a cavallo questo Blücher? Lo maltrattava? Può essere. Ma non importa.

La versione più convincente, Guglielmo di Occam non era un cretino, è stavolta la più semplice. Blücher è un frequentissimo cognome tedesco. Tipo Bianchi in Italia, o Smith in Inghilterra. Fine della storia.

Il resto è contenuto in una versione che ha a che fare con le caratteristiche metacinematografiche del film, cioè nei suoi elementi caricaturali dei canoni horror. Uno dei luoghi comuni dei film di quel genere è il fulmine improvviso o il brivido collettivo che casca addosso ai personaggi ogniqualvolta il cattivone del film compare in scena o viene nominato. Brooks prende quella roba qui e la rigira applicandola a un personaggio che non è cattivo (al limite è brutto e anonimo) e legandola non a un fenomeno spaventoso o improvviso ma al verso banale di un animale da lavoro nei campi.

Di conseguenza, dato che Brooks si è sempre rivolto a un pubblico la cui cultura cinematografica è perlomeno superiore alla media, dal contrasto che scaturisce fra la costruzione scenica e le conoscenze pregresse dello spettatore, dovrebbe saltar fuori una risata. Il meccanismo, a quel punto, può funzionare e far ridere, o non funzionare e lasciare in testa il quesito: "Ma perché il cavallo ha nitrito?" Nel primo caso, lo spettatore ha colto la finezza e ride della parodia, nel secondo lo spettatore tira dritto e pensa ad altro.

L'espediente decisivo di Brooks, tuttavia, è stato quello di ripetere costantemente lo sketch sfruttando le potenzialità comiche della cosiddetta ritualità della ripetizione. Si tratta di un processo più mentale che culturale: ha più a che fare con la struttura della nostra mente che non con il nostro punto di vista delle cose. I tormentoni funzionano all'incirca allo stesso modo. La ripetizione di una parola o di una scena, a pensarci bene, non è comica di per sè. E' comica nella misura in cui simbolizza una serie di fenomeni molto intimi alla forma della nostra mente - basti pensare ai bambini molto piccoli che fanno intenzionalmente cadere una roba dal seggiolone per una quantità di volte, ridendo sempre dell'intervento del genitore che raccoglie e restituisce - e alla nostra vita: la routine, i gesti quotidiani che si accumulano anno dopo anno.

Insomma. Del nitrito, non fa ridere tanto che è un nitrito: fa ridere che è assurdo -se non se ne coglie l'elemento parodico- o sagace -se invece lo si coglie- ma soprattutto che si ripete continuamente. Quindi la spiegazione personale di tutta 'sta fava a motore, di 'sta ricognizione filologica montata a neve è la seguente: in Frankenstein Junior, il cavallo nitrisce per fare il giro attorno ai meccanismi da cui sorge la paura negli horror classici, e per testimoniare una verità più profonda e universale. Cioè che quella roba fa ridere perché la nostra mente funziona così.

martedì 3 gennaio 2012

Bravi, bene, ancora

Il titolare del presente blog pensa che le condizioni complessive della vita nelle prigioni italiane sia uno dei più profondi elementi d'inciviltà e disumanità del nostro paese, ed è dunque soddisfatto della decisione del governo di destinare parte dei fondi ottenuti tramite l'otto per mille all'edilizia carceraria.