lunedì 30 gennaio 2012

The destruction might in fact be very localized, limited to merely our own galaxy

Herbert George Wells è stato uno scrittore inglese attivo a cavallo fra Diciannovesimo e Ventesimo Secolo. Il contributo fondamentale della sua opera è stato quello di aver dato una forma strutturata e una dignità letteraria alla cosiddetta narrativa di genere, a lungo liquidata dalle accademie culturali come frivola e, in una parola, inferiore alla maestosità marmorea dei classici universali. 
Immaginarsi mondi, riempirli di roba, rovesciare nell'intreccio secchiate di invenzioni e svolte e capriole, insomma: raccontare storie. Raccontare storie appassionanti. Questo faceva di mestiere H.G. Wells. Decenni prima di Philip Dick e Stephen King, Chuck Palahniuk e J.J.R. Tolkien. Quelli che nell'immaginario collettivo contemporaneo sono diventati riferimenti popolari e diffusissimi (La guerra dei mondi, La macchina del tempo), sono originariamente colpi di genio di un'immaginazione, la sua, spericolata e posta tre terametri sopra l'esosfera.

Questo per dire che quei bravi ragazzi della Bonelli, a un certo punto, si sono resi conto che Dylan Dog aveva bisogno di qualche personaggio secondario in più: qualcuno che saltuariamente finiva dentro una puntata e dava una mano all'indagatore romantico per portare a casa il finale della vicenda. In virtù delle caratteristiche dell'albo, in costante equilibro fra scetticismo e paranormale, razionalità e assurdo, se ne sono inventati due: la medium Trelkowsky e lo scienziato H.G. Wells. 
H.G. Wells è un tipo piuttosto simpatico: stralunato, permaloso, incostante, raffinato, più britannico del cambio della guardia, colto da fare schifo, inventore di apparecchi bizzarri ma sempre decisivi, ed eccentrico quanto basta per far infuriare Groucho, confondendolo sempre con l'inesistente maggiordomo di Dylan.
Una delle caratteristiche più divertenti di Wells è il registro lessicale a cui ricorre nella vita quotidiana: parla in un modo che sta a metà fra l'istruttore di un principe della famiglia reale del XVII Secolo e una circolare del Ministero delle poste: "Beh, non sono affari miei, Dylan, ma credo dobbiate inoltrare vibrata protesta all'agenzia che vi procaccia la servitù! Oso dire che come maggiordomo era perfino meglio l'assurdo baffone di prima, piuttosto."
Questo per il come. Quanto al cosa, se non sta riflettendo ad alta voce su qualche assurdità scientifica, in qualche modo si avvicina ai personaggi witty e salottieri alla Oscar Wilde: "Oh, la verità! Chi dice che esiste è un bugiardo!"
Fra le esclamazioni più ricorrenti e spassose di Wells, c'è senza dubbio "Anzichenò". Non che abbia molti significati, la parola Anzichenò: ha la funzione di attribuire un tono enfatizzante al concetto espresso nella frase, e la svolge mettendo in fila tre parolette il cui significato complessivo, tu guarda, è .
A me faceva spaccare ogni volta, Wells, quando diceva Anzichenò. Perché è una parola perfettamente inutile, che si presta a intenti ironici e ludici (Nessuno di noi va mai, davvero, sinceramente, in "brodo di giuggiole" per qualcosa) ma che lui usava con naturalezza. Ha la capacità di evocare sia l'inclinazione britannica all'understatement che un certo orgoglio di raffinatezza aristocratica. Ci sono dentro eleganza e stravaganza, tazze di tè e cappelli bizzarri. E poi c'è la garanzia della possibilità di frequentare quella stessa parola, talvolta, per fare la parte dell'intelligente/stupidino che calza tanto a pennello.


Titolo e foto del post dedicati a un altro personaggio debitore della figura di H.G. Wells (quello vero). La scena è questa. L'idea che uno scienziato possa essere ottimista nell'ipotizzare la "mera" esplosione dell'intera galassia in cui vive è una roba arguta e piacevole: dice tutto dei magici mondi che affollavano la testa dello scrittore. 

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