martedì 18 ottobre 2011

Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera

Mi ricordo bene che giorno era, l'ultima volta. Era il 24 maggio 2010. Lo ricordo bene perché sta scritto sul libretto universitario. Quel giorno c'era l'appello dell'esame di letterature comparate. In ragione di un numero esuberante d'iscritti, il prof spostò me e altri studenti al giorno successivo, il 25. 
La notte fra il 24 e il 25, in sfregio a ogni buona intenzione di cui si lastricano spesso gli studenti, la trascorsi leggendo un intero romanzo: era parte integrante del programma, e io non l'avevo nemmeno sfogliato. Si trattava de La strada di Swann di Marcel Proust, parte della serie di romanzi La ricerca del tempo perduto, una delle opere fondamentali nell'ambito della sperimentazione romanzesca dei primi decenni del XX secolo, e probabilmente il tomo più celebre e importante fra quelli che compongono il mastodontico edificio letterario eretto da Proust. La strada di Swann è il libro in cui c'è l'episodio della madeleine, per capirci: ed è il romanzo il cui incipit è titolo di questo post, preso a prestito anche in una scena commovente di uno dei miei film preferiti.

E' inoltre un testo che ha la caratteristica di essere costruito a partire da un procedimento stilistico tanto strutturato quanto sconsiderato, in cui l'autore si produce nella stesura di selvagge ammucchiate di frasi, orge ipotattiche, abbuffate retoriche, complessità sintattiche, rovelli ed orpelli, barocchismi e svirgolismi; e tu puoi pure provarci a leggere un periodo ad alta voce, ma non ce la fai, e sai perché, è facile, perché i periodi di quel romanzo lì non finiscono mai, mai cazzarola, e può pure venirti un enfisema, un ictus, un embolo, un lupus no perché non è mai lupus, ma cosa vuoi che gliene importi a Proust che ormai è morto, tu un periodo letto ad alta voce non riesci a concluderlo, perché lui mette un sacco di virgole, ma intendo dire tante, tante di più, e poi forse si ferma, ma non t'illudere, è solo perché poi si riprende ancora più di slancio, lui, Proust dico, capace di metterci un paio di pagine a completare l'esaustiva e chirurgica ricognizione di un microscopico pensiero che attraversa la testa di madre Françoise, che poi si scrive con la cediglia, santi numi, ora correggo e, dicevo, quel pensiero è naturalmente irrilevante rispetto agli sviluppi dell'intreccio, che poi quale intreccio, sono sette romanzi per un totale di almeno tremila pagine, in cui c'è Swann che cerca di mettere insieme i pezzi della sua vita passata e in cui l'autore riflette su intere biblioteche di argomenti diversi, ma comunque sto divagando, il punto è che Proust scriveva tutto così, e all'inizio ti dà fastidio, ma tanto fastidio, da prenderlo a testate, poi pian piano lo osservi da vicino, circospetto, e il fastidio svanisce per lasciare il posto alla curiosità, poi la curiosità si ammorbidisce, e in men che non si dica la sua prosa invereconda ti trascina in quel vortice di virgole, in quel groviglio di frasi, in quel ginepraio di arabeschi e perlamadonna, quando ci viaggi dentro inizi a a godere di un certo piacere, e capisci che se lui era un psicopatico, beh, tu non sei da meno, ed è proprio lì, è quando lui prevede che il lettore sta per realizzare la profondità e le dimensioni delle sue turbe mentali, precisamente nel momento in cui intuisce che il suo destinatario sta per valutare l'idea di prendere uno Zoloft, un Prozac, almeno un Tavor diosanto, ecco, è esattamente all'incrocio di quelle coordinate spazio-temporali dentro la psiche del lettore, che Proust piazza uno stramaledetto punto.

Cominciai il libro verso le dieci di sera. Lo finii che erano le sei del mattino. Alle sei e mezza, avevo il pullman per andare a Milano. Al di là della pirlata che ho scritto qui sopra, fu onestamente una lettura incredibile.
Quella è stata l'ultima volta, e direi pure la prima, che ho letto un libro tutto d'un fiato, come si dice. 
Anzi, la penultima: ho trascorso praticamente tutta la scorsa notte in bianco a causa di una lettura in apnea. Il romanzo stava lì sulla scrivania e ho preso a sfogliarlo. E sarà stata la sconsiderata abbuffata di pizza a cena che mi tumultuava nello stomaco resistendo ai valorosi ma insufficienti colpi della magnesia, ma dopo la prima decina di pagine, ho letto la seconda decina. Dopo la seconda, la terza e così via fino all'ultima.
E' un romanzo di Don DeLillo, s'intitola L'uomo che cade, racconta gli Stati Uniti dell'11/9 e indovinate un po', a me è piaciuto. 

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