venerdì 24 dicembre 2010

Christmas with the mine

Beh vabbè, io volevo scrivere una cosa su uno dei film a cui più sono affezionato. E' uscita sta roba qui. Prendetela un po' come vi pare.

Io non sono uno di quelli del natale. E non sono uno di quelli dei regali.
Mi piace il natale, un po' (soprattutto quando faccio lo stupidino fino a tardi con i miei amichetti); mi piace fare e ricevere regali, un po'.
Ma non vado matto. Dopo l'immacolata, non conto i giorni che mancano al natale. Prima dell'immacolata, non mi porto avanti facendo i regali. E se non mi fate regali, pazienza.
Chi lo sa perché. Magari sono un tipo anaffettivo. Che è un altro modo di dire che da qualche parte, dentro me, alberga una personalità decisamente stronza.
Un po' perché sono un rompipalle, senz'altro. E il gusto dell'essere rompipalle cresce proporzionalmente all'ufficialità del contesto cui rompi le palle: e più ufficiale del natale c'è ben poco.
E un po' perché sono cresciuto così, credo. Nemmeno in casa mia, ci sono esponenti portatori sani dell'entusiasmo natalizio.
L'unico regalo di natale che ricordo molto bene è il walkman ricevuto intorno ai 6 o 7 anni: non mi sembrava vero poter avere con me la musica di quel figo stratosferico (avevo 6 o 7 anni) di Jovanotti (Sei come la mia moto), poterla ascoltare ad alto volume e nel frattempo infastidire una mazza di nessuno. Ho davvero un ricordo molto vivo di quella sorpresa. Soprattutto, credo, perché ho scoperto cos'è un walkman proprio nel momento in cui l'ho ricevuto in dono: alla meraviglia per l'invenzione, si aggiungeva la gioia per il possesso.
Poi molti altri regali li ricordo, certo. Difficile dimenticare i primi videogame tipo Golden Axe e Robocop. E difficile dimenticare certi orrendi calzoni di velluto. (Poi i calzoni di velluto mi sono tornati simpatici, però)
Facile, poi, ricordare il periodo in cui dal regalo convenzionale sono passato al regalo concettuale, chiedendo di sostituire il pensiero con una somma di denaro. Quella richiesta prontamente soddisfatta dai miei, ora che ci penso, è stata la fine del mio natale personale. E per certi versi dell'infanzia in senso lato.
Ma comunque, un po' per motivi personali e un po' per motivi famigliari, io non sono uno di quelli del natale.
Mi rendo tuttavia conto che il natale sia un fenomeno diffuso e rilevante.
Ultimamente, mi piace pensare al natale come un grosso e condiviso racconto collettivo in cui si rovesciano numerosi pezzi delle nostre vite, e numerose e decisive relazioni attorno a cui costruiamo le nostre vite: persone a cui teniamo, persone con cui abbiamo trascorso del tempo, e persone con cui vorremmo passare del tempo in futuro.
Un po' come i romanzi classici, il natale è un racconto che mescola il personale e il collettivo, l'individuo e l'ambiente. I nostri desideri rispetto al modo in cui trascorreremo il natale e il modo in cui effettivamente lo trascorriamo, messi insieme, dicono molto di ciascuno di noi.
Quindi funziona, come racconto.
Intanto perché il natale è nato, come racconto. E la sua storia sta dentro una storia più grande che ha molto inciso sull'evoluzione della letteratura (sì, anche su quella del mondo in generale), attribuendo -in estremissima sintesissima- a personaggi e contesti umili la possibilità di frequentare nobili e sagge condotte morali prima, e di accedere a verità trascendenti poi -con il solo scopo di poterle contemplare.
Il lieto fine, inteso come soluzione definitiva a un intreccio precedentemente compromesso da agenti esterni, è una roba dei vangeli. (E qui entrerebbe in gioco la storia del mondo, ma adesso non importa, appunto. E se pure importasse, io non avrei cose originali e notevoli da dire, in proposito.)
Inoltre, il natale funziona molto, come racconto, perché a sua volta è entrato in una quantità spropositata di racconti: non sto nemmeno ad argomentare.
Infine, funziona molto, come racconto, perché se c'è una roba gustosa da fare durante il natale è stravaccarsi sul divano e assistere ai racconti -quasi sempre si tratta di film passati in Tv- che ne perpetuano l'ufficialità. E' il concetto di comfort a livelli impennati, e difficilmente eguagliabili: pancia piena, buon umore, belle persone attorno, storie che finiscono bene. Storie, soprattutto, di cui già si conosce il lieto fine.
E stasera alle 21:10 su Italia1, va in onda Trading places, cioè Una poltrona per due.
E Una poltrona per due è la cosa che più mi avvicina a essere uno di quelli del natale. L'ho guardato una quantità sconsiderata di volte, sempre a natale e quasi sempre con i miei o almeno con mio fratello.
E poi c'è dentro tutto: gli anziani sono insieme ridicoli e terrificanti, i comprimari seguono un'evoluzione coerente ai fatti narrati e i due protagonisti sono investiti da una serie di vicende che stravolge le loro vite e alla cui comprensione, inizialmente, sono sottratti. Entrambi, inoltre, devono misurare la loro intraprendenza personale con i comportamenti del prossimo, e le loro capacità individuali con le care vecchie dinamiche (eh, sì: ho scritto dinamiche) ambientali.
Ed è tutto leggero: verosimile, ma sgangherato.
E la faccenda finisce come deve finire.
E io vado matto, per Una poltrona per due.
E chissà come andranno quest'inverno, le azioni del succo d'arancia congelato.

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