giovedì 22 ottobre 2009

Mirabolanti avventure di altri gnomi nella macchina da presa (per non parlare del clima, madame)

Fare arte, inventare qualcosa, mi spiegavano alle superiori, è una cosa complicata. Nella sua complessità, questo tipo di attività ha sempre richiesto, da parte dell'artista, un esercizio di equilibrio tra forma e contenuto. La forma è il come, il contenuto è il cosa. E ok.
Se ti concentri troppo sulla forma, sullo stile, sull'eleganza, su orpelli e minchiatine, rischi di perdere di vista il contenuto. Se friggi aria, ma bene come te non la frigge nessuno, capace che ti danno del barocco, o del frivolo. Ti dovrebbero dare del rococò al limite, ma questo non c'entra.
Se ti concentri troppo sul contenuto, su quel che succede e sul significato di quel che succede, rischi di essere palloso. Se tiri su una casa gigantesca, strutturatissima e densa di roba ma che da fuori sembra un penitenziario, non te l'affitta nessuno.
Per capirci, ad esempio, Oscar Wilde era uno criticato per l'eccessiva cura formale e la conseguente povertà di contenuti - poi l'hanno capito e un po' hanno smesso di criticarlo.
Emile Zola il contrario. Tutta una roba di messaggio, di affresco della società, di significati, di divulgazione del verbo socialista, ma due palle a leggerlo - poi l'hanno capito e un po' hanno smesso di criticarlo.
Poi ci sono i geni, che tengono insieme forma e contenuto a livelli imbattuti. Solitamente, nei programmi didattici ministeriali godono di grande spazio. Dante e Shakespeare, per capirci.
Passando dalla letteratura al cinema, c'è solo una grande differenza - che negli ultimi decenni si è sempre più assottigliata, fino a sparire.
Certo, i soldi. Il cinema è un'industria: le banche prestano i soldi ma li rivogliono con gli interessi, i produttori investono ma poi ci vogliono guadagnare. In mezzo, c'è il film.

Questa serie di cose inutili è per dire che ho visto Public Enemies di Michael Mann e non ci credevo.
Non credevo, onestamente, che un grosso film (100 milioni di budget) hollywoodiano potesse essere concepito e realizzato in quel modo. (E guadagnare in quel modo: è ai 200 milioni ormai, e in molti stati -tipo l'Italia- non è ancora stato distribuito.)
Ma dicevo del modo.
E' ambientato negli anni '30, parla di John Dillinger ed è una cosa glaciale. La forma è elegantissima, i dettagli fighi abbondano, la ricostruzione dell'epoca è precisissima, gli attori parlano quasi sempre a bassa voce, la fotografia è un piacere per gli occhi, le sparatorie sono sparatorie come uno si immagina le sparatorie, la colonna sonora vive tutta su una serie di accessi di solennità. E' quel tipo di compiutezza, di meticolosità, di rigore che ti stordisce. C'è un'intensità che spiega benissimo come mai il regista giri non più di 4 film per decennio.
Se Michael Mann (che il cielo lo conservi) l'avesse intitolato Come dirigere un film, avrebbe sintetizzato meglio il soggetto.
Naturalmente, questa straordinaria cornice tira molto la coperta dalla sua, lasciando indietro la scrittura.
Certo, c'è qualche colpo di scena, il plot sta in piedi dall'inizio alla fine e non trovi forzature nemmeno con la lanterna. Ma i dialoghi zoppicano, e molto. E anche l'interpretazione dei due attoroni (Depp e Bale) è un po' meno di quel che ci si aspetterebbe.

Ma secondo me, almeno stavolta, questo conta poco: Mann ha offerto al grande pubblico una cosa hollywoodiana di grande qualità, sfidando i pregiudizi diffusi sulla capacità dello spettatore medio di confrontarsi con un film complesso e sintattico, e con questi gli standard professionali di molti suoi colleghi.
Facendo ciò, ha portato a casa il cucuzzaro.
Se poi uno si annoia, siamo al solito De gustibus, e va bene. Ma Public Enemies è bello comunque.

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