lunedì 9 novembre 2009

And when they've given you their all, some stagger and fall. After all, it's not easy banging your heart against some mad bugger's wall

Tanti anni fa, sul manuale di storia adottato dal mio prof, ho letto un documento relativo alla "nozione di causa".
Che cos'è una causa storica, quale peso attribuire a ogni causa, secondo quali criteri si dispone la gerarchia delle cause. Eccetera.
Esempio. Un uomo cammina in montagna, fa un passo falso e cade nel burrone: morto.
Nel tentativo di spiegare l'accaduto, diceva il testo, quasi chiunque si concentrerebbe sull'ultima causa, la più visibile e inconfutabile: il passo falso.
L'approccio -diceva il testo- è molto comprensibile, ma poco storico, perchè non esamina il fatto da lontano, non cerca di abbracciare la completezza degli elementi che lo hanno determinato.
E quindi giù a chiamare in causa (appunto) la passione dell'uomo per la montagna, i pensieri in cui si era perso durante la camminata, le caratteristiche chimiche del terreno, la forza d'attrazione gravitazionale e via di seguito: ogni tessera è una causa che sottrae rilevanza al passo falso.
Un po' la versione accademica e ragionata della contestazione delle banalizzazioni storiche, secondo le quali -per dirne una e dirle tutte- la Prima Guerra Mondiale è scoppiata per colpa di Gavrilo Princip: la goccia che fa traboccare il vaso è una cazzo di goccia, e piantiamola.

Morale: pluricausalismo. Ogni evento è figlio di cause molteplici. Queste cause sono spesso difficili da individuare e valutare. Conclusione: la discussione di un evento, che spesso si trasforma nella discussione delle cause di un evento, è una roba che si deve fare solo dopo averlo srotolato con doverosa e attenta precisione.
Più o meno.
E adesso arrivo al punto, che contraddice tutto quello che ho appena scritto.
Oggi, son 20 anni che è venuto giù il muro di Berlino e io ho tradotto quest'articolo. Non ci sono gli equilibri internazionali, nè dissertazioni sulle crisi del blocco sovietico, e neppure l'attività di Gorbaciov, o il famoso "Tira giù quel muro" di Reagan.
Non c'è la grande storia, insomma. C'è la piccola cronaca dei momenti della caduta. C'è il racconto del passo falso.

Troppo spesso, consideriamo la storia come qualcosa di inevitabile. "Quello che è successo doveva succedere", è il culmine di affini forze sotterranee. Tendiamo a dimenticare che la storia è definita anche dalla logica del disordine umano. Le coincidenze, i casi, anche gli incidenti appaiono sempre alla distanza nei grandi eventi. Consideriamo l'immagine simbolo che passerà e ripasserò nei nostri schermi televisivi nelle prossime settimane: i berlinesi che ballano in cima al muro crollato, alla fine della Guerra fredda, 20 anni fa. Io c'ero, in quella notte da ricordare: 9 novembre 1989. La scena si svolgeva al Checkpoint Charlie, il famoso confine che attraversava il cuore di una Berlino divisa. Una notevole folla di tedeschi orientali affrontava una sottile linea di poliziotti, che nervosamente tastavano le loro armi.
Dentro la sua cabina illuminata, il capitano della dogana della Germania Orientale, un tizio grande e grosso con la mascella quadrata e scuri capelli ispidi simile a un Doberman, stava lì in piedi chiamando e richiamando al telefono. Per ore, ha inutilmente cercato istruzioni da seguire. Era senz'altro confuso. Più probabilmente era spaventato.
Le folle di fronte a lui erano apparse dal nulla, cresciute rapidamente, a differenza di qualsiasi cosa lui avesse mai visto, e ora si spingevano così vicino che il loro alito, sbuffante nella notte, si mescolava con quello degli altri uomini.
Simili telefonate allarmate si moltiplicavano dai checkpoint di qua e di là dal muro. Che stava succedendo? Cosa bisognava fare? Non c'erano risposte. Nessuna istruzione giungeva dal Ministro degli Interni. I vertici istituzionali erano a teatro, o nei salottini delle loro amanti. Mentre la Germania Orientale (e comunista) entrava nella sua finale crisi esistenziale, la sua leadership era assente ingiustificata.
Nella sua cabina vetrata, il capitano della dogana, attaccava il telefono un'altra volta. Stava in piedi, immobile.
Forse era appena stato informato del fatto che l'incrocio di Bornholmerstrasse aveva rotto le sue barriere, assediate da circa 20000 persone.
Forse aveva preso una decisione. Forse era semplicemente stufo marcio. In ogni caso, precisamente alle 11:17 di sera, scrollò le spalle, come per dire: "Perchè no?"
"Tutti fuori!" ordinò. "Aprite", e i cancelli si spalancarono. Con un gran rumore, le folle si buttarono avanti. Fra i primi ad attraversare il guado verso la libertà, c'era una donna. L'avrei guardata per ore, mentre cercava di riscaldarsi, avvolta nella sua vestaglia celeste. E' stata lì, per un momento. Il momento dopo, la storia l'aveva letteralmente spazzata via. Portata in alto da una marea umana, si voltò indietro e urlò a un amico: "Torno fra dieci minuti. Voglio solo vedere se è tutto vero."
Un po' prima, quella sera, intorno alle sette, un altro uomo aveva scrollato le spalle. Gunter Schabowski, il corpulento portavoce del partito, insediatosi qualche settimana prima, si era fermato agli uffici del capo del partito comunista, Egon Krenz, che stava andando a tenere il quotidiano incontro con la stampa.
"Qualcosa da annunciare?" chiese casualmente. Krenz diede un'occhiata ai documenti sulla scrivania e poi girò a Schabowski un memo di 2 pagine. "Prendi questo" disse esibendo un ghigno. "Ci garantirà un grande successo."
Schabowski guardò il memo mentre si dirigeva al quartier generale del partito. Era una breve dichiarazione relativa ai passaporti. Da ora in poi, ogni tedesco orientale avrebbe avuto il diritto di possederne uno-e di spostarsi liberamente.
Per una nazione rinchiusa così a lungo dietro la cortina di ferro, questa era una novità incredibile.
Alla conferenza stampa, ci fu un improvviso silenzio mentre Schabowski leggeva il memo, poi un baccano provocato da giornalisti urlanti. Dal fondo della stanza, mentre le videocamere giravano, trasmettendo in diretta alla nazione, la fatal domanda risuonò: "Quando entra in vigore?"
Schabowski fece una pausa, e alzò lo sguardo. "Cosa?" disse, confuso. Il coro delle domande risuonò ancora, in cerca di chiarimenti. Schabowski si grattò la testa, mugugnò qualcosa ai suoi assistenti, portò gli occhiali sulla punta del naso, lesse le sue note, poi un'altra volta alzò lo sguardo e scrollò le spalle. "Immediatamente" disse forte dopo aver letto quel che c'era scritto sul memo. Subito. Senza ritardi.
Con ciò, la stanza -e il mondo- diedero in escandescenza. Schabowski, lo sappiamo ora, non comprese in pieno il significato del suo annuncio. Essendo in vacanza quando fu presa la decisione, non sapeva che i piani avrebbero avuto effetto dal giorno dopo, 10 novembre. E non lo sapevano nemmeno i tedeschi dell'est. Loro sapevano solo quello che avevano sentito in radio e in Tv. Pensavano di essere liberi di andarsene. Immediatamente. Da subito. A centinaia di migliaia scesero per le strade all'incocio con la parte occidentale di Berlino.
Sopraffatta, senza istruzioni ricevute, la polizia della Germania orientale fece a modo suo.
Come Schabowski, come la guardia della dogana al Checkpoint Charlie: tutti scrollarono le spalle.
E così, il muro venne giù.

Nessun commento: