lunedì 28 dicembre 2009

La versione di

Sinceramente, onestamente: secondo me Christian De Sica è un tizio intelligente. Lasciamo da parte il suo lavoro e il personaggio che si è ritagliato: l'ho visto in Tv diverse volte, soprattutto da Fazio. Ho trovato molto piacevoli le sue chiacchierate e molto interessanti gli aneddoti che raccontava.
Sul Corriere di oggi, c'è una sua intervista.
Nei giorni scorsi, c'è stata un po' di polemichetta molle su Natale a Beverly Hills e sui presunti finanziamenti pubblici ricevuti. A giro finito, pare non siano esattamente finanziamenti, ma un credito d'imposta sugli incassi da riscuotere in futuro per produrre altri film.
Ma comunque.
Nella sua intervista, Christian De Sica dice una cosa sensata ancorchè parziale ("Il famigerato cinepanettone mantiene l’intero cinema italiano"), diverse banalità (il ruolo del critico cinematografico, il "problema" della volgarità dei suoi film, il commento sulla statuetta tirata al Cav) e una gigantesca stronzata, sulla quale mi voglio soffermare, perchè è relativa a un discorso teorico sull'arte che ritengo essenziale.
Eccola: Il punto è che il film di Natale è lo specchio dell’Italia di oggi.

Di questo parliamo: dell'idea di riproduzione e dell'idea di rappresentazione.
Il film di Natale è lo specchio dell'Italia di oggi? Irrilevante.
Intanto, bisognerebbe mettersi d'accordo su cosa diavolo sia, l'Italia di oggi. E anche se ci fossimo accordati (Chi? Noi italiani? Metterci d'accordo? Su cosa? Sulle bandiere che sventolano il 25 aprile? Appunto, pedalare), il tema resterebbe irrilevante.
Può esserlo come non esserlo, come esserlo in parte. Uno può fare il discorso sociologico e dire che un po' sì, può fare l'analisi del testo e dire che nemmeno per idea, può avere dei dubbi e dire mah.
Quel che trovo insopportabilmente sbagliato, nella riflessione di De Sica, è il cinismo strabordante che la sostiene. Cinismo che, attenzione al numero, al tempo stesso viene celebrato dalla riflessione stessa.
[Naturalmente, per cinismo non intendo la visione disincantata della vita, ma l'accettazione presuntuosa e rallegrata di questo disincanto. Intendo il conformismo, insomma, nella sua più vistosa versione contemporanea.]
De Sica dice, parafrasando alla bancone del bar: "l'Italia di oggi? Robetta. Io artista che faccio? Celebro la robetta, mi rotolo nel fango in cui giace, ripeto la stessa battuta da decadi, me la cavo con un po' di commedia degli equivoci, con due tette e con un negro che parla male l'italiano; quindi non rompete le palle che io faccio soldi a palate e sono lo specchio della realtà."
Troiate.
[Occhio che prendo una curva alla Umberto Eco]
La sopravvalutazione e l'elevazione del cinismo (e del sarcasmo, suo fratellastro) alla stregua di una condotta morale artisticamente degna (e quindi degnamente rappresentabile) è uno dei grandi flagelli culturali degli ultimi anni.
Perchè il cinismo e il sarcasmo sono nelle cose.
La vita, talvolta, è cinica; la relazione che si stringe fra le cose che ci succedono, talvolta, è sarcastica.
L'artista, essendo, come dire, un uomo, conosce questo cinismo e frequenta questo sarcasmo. Ma se è un artista, anzi se è un grande artista, fa un passo a lato, rispetto alla pochezza intrinseca alle cose del mondo.
[Qui invece faccio il volo alla Luciano Ligabue, perdonatemi se potete]
Quando ha a che fare col cinismo, il grande artista si sposta di un metro, lo lascia colpire a vuoto e poi gli dà un pugno nei fianchi.
Il grande artista non fa parlare il cinismo: lo mette in mostra. Non esalta il sarcasmo, lo rappresenta. Rappresentandolo, raccontandolo, lo smonta e lo rimonta come vuole e ne tira fuori gli elementi che preferisce: poi c'è il pubblico, che solitamente si fa un'idea.

Inizio pippotto: uno dei più grandi scrittori del diciannovesimo secolo, Oscar Wilde, ha dato vita ad alcuni dei personaggi di finzione più cinici e tronfi che si ricordino (Lord Wotton, Lady Bracknell, Lady Windermere) ma non si sarebbe mai sognato di celebrarne la moralità: basta leggersi Il ritratto di Dorian Gray o L'importanza di chiamarsi Ernesto.
Da bravissimo deformatore qual era, Wilde metteva in scena il cinismo e l'arroganza di chi la sa lunga, di chi ha sempre la battuta pronta, e attraverso l'intrecciarsi delle vicende mostrava piuttosto esplicitamente (pur senza metterci davvero il becco) quale sarebbe stato il traguardo di quel cinismo, e quali le soddisfazioni ottenute grazie ad esso.
A conclusione del parallelo, che poi Oscar lo lascio riposare come si merita, uno dei suoi aforismi più celebri (e il mio preferito) è: Chi è un cinico? Un uomo che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna. Fine pippotto.

Sto forse dicendo che De Sica e Parenti dovrebbero imparare da Wilde bla bla? O che il cinema basso contro il cinema alto, Bergman Vs Terminator bla bla bla?
No, sto dicendo che ci sono diversi modi di rappresentare i difetti della società in cui si vive; che De Sica, cercando un'autogiustificazione con la stronzata dello specchio della realtà, si propone come fuoriclasse dell'Italietta di cui parla nell'intervista.
Perchè non ne contesta la pochezza, non ne evidenzia la meschinità, ma la copiaeincolla, la mette in vetrina e le dà un megafono per urlare più forte; perchè fa della mediocrità un merito, della prosaicità un vanto e del cinismo una virtù: e facesse almeno non dico sorridere ma provocare un movimento delle labbra e un cambiamento dell'espressione facciale sufficienti da suscitare nel prossimo il sospetto che forse sì proprio lui sta sorridendo, porcaputtana, mi farebbe incazzare un filo meno.

1 commento:

Nich ha detto...

Ma allora non potevi venire a giocare ad Asse e Alleati invece che sprecare un così lungo post per ribadire un concetto molto più semplice di quello che lasci intendere?