domenica 18 marzo 2012

Give 'em the boot, you know I'm a radical

Sulla Lettura di oggi, c'è un pezzo d'apertura di Mariarosa Mancuso che parla del declino dei radical chic. Mariarosa Mancuso è nota soprattutto per le sue recensioni letterarie e cinematografiche pubblicate sul Foglio. Sa scrivere bene. Leggendo i suoi pezzi, a volte viene il dubbio che i suoi siano gusti un po' costruiti ed esibiti, che qualsiasi critica formuli sia espressa alla luce del principio sacro agli alternativi "Mi si nota di più se dico che fa schifo o se dico che fa tanto schifo che bisogna vederlo?" Ma si tratta di un dubbio a sua volta suscettibile di critiche: è sempre meglio assumere la convinzione che l'interlocutore sia sincero e in buona fede, se si vuole guadagnare una credibilità da interlocutore sincero e in buona fede. Altrimenti si finisce al Processo di Biscardi a discutere degli UFO nella supermoviola.
Ma comunque: potrei anche arrivare al punto, ma prima vorrei far notare alla redazione de La Lettura che io li leggo. La domenica, vado a pranzo dai miei e mentre bevo il caffè dò sempre un'occhiata. Settimana scorsa c'era un articolo straordinario sul rapporto fra sinistra e modernità, declinato nella fattispecie nel mondo dell'agricoltura e delle modifiche genetiche. Oggi c'era una bella riflessione sul valore della pena nell'Italia contemporanea, più altre cose interessanti. E però c'erano anche un articolo a proposito dei fallimenti delle aspirazioni musicali e compositive di Nietzsche e un bel paio di pagine sulla sopravvivenza della Recherche di Proust nei gusti del pubblico a svantaggio di Joyce e Musil. E non è tanto che si parli di Nietzsche e Proust, è il modo in cui se ne parla che porta il lettore a verificare la data di pubblicazione del giornale: 2012? 1912? Non si sa. Non si capisce bene. Non sempre.
Comunque, ora arrivo al punto. 
Qualche tempo fa, un mio amichetto coinquilino s'è comprato una bella giacca marrone. (Ma allora ci prendi per il culo? Stai facendo le pippe al criceto, altro che arrivare al punto. Buoni, che c'arrivo. E poi è domenica, c'è brutto tempo: che cazzo avete da fare?) Si tratta di una bella giacca marrone, di quelle un po' spesse da portare sopra una camicia o un maglione leggero, con addosso un paio di jeans. Niente di sbanfone o di ridondante: una cosa buona per passeggiate, aperitivi, serate all'aperto in autunno o primavera. Insomma una giacca. Bella. Marrone. Una bella giacca marrone.
Commentando l'acquisto e la scelta che lo ha determinato con qualche amico, a un certo punto nella chiacchierata si è infilato il binomio radical chic. Naturalmente stavamo a scherzà, ma ci siamo prontamente liberati della tentazione di legare quella scelta estetica alla categoria radical chic. Quello che mi è venuto in mente subito dopo, è che io non lo so mica cosa significhi quel binomio. Cioè: ho dedotto il suo significato grazie a tutti gli usi che ne vengono fatti, ma nessuno mi ha mai spiegato da dove arrivi, per quali ragioni sia stato escogitato e che storia ha avuto. 
Me l'ha spiegato brevemente Mariarosa Mancuso, sollecitando la mia pistineria ad approfondire la cosa. Perché? Perché se uso una parola voglio sapere di che diamine si tratta. Sono eccentrico così. Comunque, tornando a Mancuso:
Anche un esperto cacciatore di radical chic come Tom Wolfe — suo il reportage che nel 1966 coniò la definizione, dopo un party in casa del compositore Leonard Bernstein, ospiti d’onore le Black Panthers — avrebbe qualche difficoltà a reperire i nuovi modelli. «Non leggo i libri in classifica» e «non guardo la tv, neanche ne possiedo una» sono stati per anni due capisaldi del radical chic pensiero.
Leonard Bernstein è quello di West Side Story, per il grande pubblico. Per chi invece s'interessa di musica contemporanea, è uno dei compositori statunitensi più famosi e importanti del Ventesimo Secolo. Le Black Panthers erano un movimento politico americano sinistrissimo, battagliero e rivoluzionario che appoggiava la causa dei fratelli neri in America. 
Leonard Bernstein, le Black Panthers.
A un certo punto, in quegli anni là, il primo ha dato una festa con lo scopo di raccogliere fondi per le seconde. Alla festa, partecipò una fetta di società newyorkese evidentemente facoltosa, raffinata, a suo modo aristocratica. A me vengono in mente o Scott Fitzgerald con il suo Gatsby disperato o membri tossici dei Rolling Stones morti annegati in piscina, quando penso alle feste newyorkesi. Immagino che in questo caso siamo più nel primo emisfero che nel secondo. E poi magari Brian Jones è morto da un'altra parte. Boh. Non lo so.
Comunque: Tom Wolfe è uno dei più grandi scrittori contemporanei, e fra le tante meraviglie che si è inventato nella sua vita c'è pure questa formuletta, che ha la caratteristica di evidenziare la dissonanza identitaria relativa al sostegno di una forza politica intransigente, di strada e incazzatissima da parte di un mondo invece esclusivo, elitario, sbrigati che fra poco Rudolf Khametovich attacca i primi passi.
Quindi possiamo dire questo: radical chic è uno chic che sostiene forze politiche radicali. Chic nell'accezione di chic, radical nell'accezione più ampia di massimaliste, rivoluzionarie. Massimaliste, rivoluzionarie e di sinistra. Le sostiene per mezzo di una partecipazione diretta, con un impegno concreto? No, le sostiene mollando la lira. Perché? Perché ha deciso così. E sono cazzi suoi.
Fine.
Anzi, fine un paio di gemelli d'oro bianco del Sudafrica: dalle origini semantiche si passa all'uso concreto, alle evoluzioni attraversate dal binomio nel corso della storia.
Qual è il bello -o il brutto, o il "siamo solo amici"- della questione? E' che, oggi, Italia, 2012, chiunque definisca qualcun altro un radical chic, più o meno, intende dire che è

1) un ipocrita
2) un omosessuale
3) uno che non ha mai lavorato un giorno in vita sua
4) uno che se la tira
5) uno stronzo
6) tutte e cinque le voci sopraelencate.

Io non so attraverso quali meccanismi sia passata la vita di quest'espressione, ma mi sembra che sia proprio così. E poi l'utilizzo della formuletta è vincente nella misura in cui sottrae l'esigenza di argomentare. Quello lì è un radical chic. Panino con il prosciutto buono. Radical chic no buono. L'Atalanta allo stadio buona. Lettura libro pubblicato da Adelphi no buona.
E poi l'espressione è un jolly giornalistico, una chiavistello che risolve qualsiasi polemica, un post-it buono per qualsiasi frigorifero. 
Sei contro la TAV? Beh, sei chiaramente un radical chic. 
Non ti piace Di Pietro? Vi conosco, voi, radical chic di sinistra pallemosce senza il coraggio di affrontare davvero Berlusconi.
Ti fa cagare Il grande fratello? E' perché frequenti troppi radical chic.
Ogni tanto guardi Il grande fratello? Non vi sopporto più, voi radical chic: adesso guardate pure Il grande fratello pur di distinguervi. 
Quel pessimo giornalista che risponde al nome di Vittorio Feltri sarebbe capace di dare del radical chic a un tredicenne con la fronte ricolma di acne e la PSP in mano, se volesse criticarlo.
E mi sembra che anche Mariarosa Mancuso caschi in questa schematizzazione povera e inutile alla comprensione delle cose. E le prudevano le mani, a quanto ho potuto capire.
Concita De Gregorio ha criticato I soliti idioti? E' una radical chic. Umberto Eco parla spesso di Kant? Idem. Daria Bignardi e Serena Dandini fanno tv su La7 con ascolti scarsi? Dentro pure loro.
E non si tratta nemmeno di schierarsi. Anche a me l'articolo su I soliti idioti è sembrato una cretinata, ma non per via di un malinteso tono elitario da parte dell'autrice. Mi è sembrato una cretinata perché si percepiva che dietro non c'era una conoscenza approfondita (cosa sia stato Little Britain, per esempio) del tema, e si poteva concludere che le argomentazioni offerte erano le stesse che utilizzava Marco Tullio Cicerone, duemila anni fa, coi suoi O tempora o mores
Con la quantità di contraddizioni gigantesche a cui si espone, a sua volta, chi pretende di denunciare il suo fastidio per i radical chic: il sommario del pezzo di Mancuso parla di "Estremismo modaiolo". Quindi i radical chic averebbero la caratteristica di essere presuntuosamente elitari, arroganti di fronte ai gusti più popolari, aristocraticamente rinchiusi nella loro torre d'avorio con parquet chiaro, scrivanie impero e senza televisione ma, al tempo stesso, triplo e mezzo in avanti carpiato coefficiente di difficoltà 3.1, modaioli. Eh, cazzarola, no. Va bene che al Foglio sono maestri nell'arte del mezzo imbroglio verbale e dello sgambetto retorico, ma pure modaioli no. 
Mariarosa Mancuso, ti stanno sul cazzo Concita De Gregorio, Serena Dandini, Daria Bignardi e Umberto Eco? Diosanto, Scrivilo. Scrivi quello. Scrivolo con tutti dei fronzoli e delle perifrasi e delle iperboli e delle minchie a motore ma almeno non prenderci per il culo mentre soddisfi l'urgenza tutta tua di dare addosso a persone che non ti piacciono.
Che poi rubi il tempo a quelli come me, radical chic nati, che fra poco ricevono qualche amico e guardano per la centesima volta un film di Tony Scott con Bruce Willis, L'ultimo boy-scout

6 commenti:

david ha detto...

Tema interessante per la sua valenza sociologica, perché si tenta di coniare una definizione per proporre in realta' una domanda: é il modo in cui la borhesia post-sessantottina ha ricercato, piu' o meno consapevolmente, una nuova legittimazione? O si tratta piuttosto di una sovrastruttura neo-liberista(esempio:
l'idea secondo la quale se l'ecologismo - Italia a parte - va tanto, puo' essere perché il capitalismo sa reinventarsi e l'ambiente é una nuova via)? Per quanto concerne la definizione, messa cosi' la trovo un po' stretta, per esempio ti invito a googlare su wikipedia 'List of chics', c'é da divertirsi. In francia si usa un'altra espressione: 'bobo', bourgeois-bohème, come l'espressione inglese ma in un'accezione piu' 'gauchista'. Ognuno poi la spiega a modo suo ma il
denominatore comune resta lo stesso: uno che almeno un po' se la tira.

GF ha detto...

Io ho trovato queste formule straniere. Molte hanno la caratteristica di legare un consumo alimentare alla formula.
http://it.wikipedia.org/wiki/Radical_chic#In_altri_paesi

Isa ha detto...

Ciò non toglie che la giacca di Nico sia radical chic. E bertinottiana, di conseguenza (?).

GF ha detto...

Beh, sì: se restiamo fedeli all'uso vigente della parola Bertinotti è -anzi, era: chi se lo caga più- il capobanda dei radical chic.
Se invece facciamo riferimento al significato originario dell'espressione, Bertinotti è -era?- un radical, ma certamente non chic.

In generale mi sembra ci sia un meccanismo mentale un po' poveretto e leghista dietro l'abuso dell'espressione "radical chic". E' cioè un modo tanto facile quanto privo di argomenti per criticare qualcuno. Poi anche chissenefrega, eh, ma visto che stiamo ragionando su 'sta roba, perché non andare fino in fondo.

Isa ha detto...

Sì il mio era proprio un commento che voleva dire "nonostante l'etimologia, la filologia ecc. dell'espressione, dato che noialtri volenti o nolenti siamo tutti un po' populisti riguardo l'italiano, a volte, e che davanti alla vista della giacca veniva proprio naturale dire che faceva molto radical chic, allora, dicevo, diciamolo pure." Comunque mi piace per come ti tiri matto a capire un sacco di cose, bene bravo 7+!

GF ha detto...

La mia curiosità ti ringrazia: mi piace imparare e cercare di capire le cose. (Stasera ho imparato le regole di Munchkin, per esempio: è divertente, ci rigiocheremo senz'altro.)