lunedì 12 ottobre 2009

What you see is (not) what you get

Il premio Nobel per la pace, come altri riconoscimenti tipo L'uomo dell'anno di Time, è una roba decisa da una tavola rotonda di pochi e colti osservatori delle cose del mondo. In questo caso specifico, abbiamo a che fare con cinque norvegesi selezionati dal loro parlamento nazionale.
Oh, yes: sono cinque e norvegesi.
Di conseguenza, ogni assegnazione del premio Nobel per la pace potrebbe anche essere commentata da sbadigli assordanti, o da un gigantesco echissenestrafotte, e nessuno avrebbe molto da obiettare.
Tuttavia, trovo un punto di grande inconsistenza nelle proteste e nelle critiche mosse da chi sostiene, in soldoni, che l'assegnazione del premio a Obama sia affrettata (o sbagliata, o esagerata) poichè quest'ultimo non ha ancora fatto molto per meritarselo.
Talvolta, infatti, sto cercando di imparare, quando le opinioni del prossimo appaiono così facilmente smentibili e i suoi comportamenti così facilmente contestabili, c'è semplicemente dell'altro di cui non si tiene conto, o di cui si ignora l'importanza.
In questo caso, quello che mi sembra venga molto trascurato dai contrariati, quello che rende inconsistente le critiche a quei cinque e norvegesi, è che lo sanno perfettamente, quei cinque e norvegesi, da quanto poco Obama sia al potere, e quanto sia acerba la sua attività per poterla premiare ufficialmente: non sono mica scemi.
Alla luce di questa consapevolezza, quindi, non considero il Nobel assegnato a Obama un premio nel senso canonico del termine. Non ci vedo un riconoscimento. Ci vedo un incoraggiamento, una pacca sulla spalla. Una roba tipo: fin qua sei stato bravo, continua così.
Da quest'angolazione, concludendo, mi sembra che dare a Obama il Nobel per la pace sia stata una buona idea. Niente di più, niente di meno. Magari ce n'erano di migliori. Ma questa, intanto, è stata buona.

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