martedì 5 giugno 2012

Molto Oskar, incredibilmente Oskar

Nel 1868, uno scrittore americano di nome John William Deforest ha scritto un saggio che ha avuto il merito di abbozzare le caratteristiche di un modello letterario della narrativa statunitense di grande fortuna nei decenni a venire. La sua tesi era più o meno la seguente: mentre il canone del romanzo borghese in Europa conquistava vette di grandezza mirabile grazie ai capolavori di Dickens, Hugo e ballotta realista al seguito, la più acerba scuola letteraria americana faticava a partorire opere d'ingegno capaci di raccontare in modo definitivo e memorabile le complessità e le contraddizioni interne al corpo sociale. In poche parole, nonostante qualche tentativo effettuato da Washington Irving e Herman Melville, nessuno nel nuovo mondo aveva ancora scritto il grande romanzo americano. O, come lo chiamava Deforest, The Great American Novel
Il grande romanzo americano è divenuto nel Ventesimo Secolo l'ideale di riferimento per una quantità di scrittori formidabili: da Scott Fitzgerald a De Lillo, da Faulkner a Lee, molti autori hanno cercato di produrre opere giganti, ambiziose, capaci di raccogliere forme e contenuti dell'epica a stelle e strisce. Nel frattempo, si capisce, altri scrittori prosperavano grazie a contributi meno ambiziosi, più immediati, meno ricercati, svincolati dal tenore accademico dei nomi più prestigiosi. Parlo di Flannery O'Connor e di J.D. Salinger, per esempio, ma anche di Philip K. Dick, per capirci. E non stiamo a fare le pippe al gatto cercando di stabilire gerarchie schematiche: la letteratura è ricerca dell'umano, non ci sono criteri metodologici indiscutibili in base ai quali l'ambizione di scrivere la rappresentazione narrativa di grandi fenomeni storici e sociali sia di per sè un valore aggiunto e segnalatore di qualsivoglia profondità. Gli scrittori raccontano storie: quello che ci buttano dentro è il loro modo di farlo. C'è molta eccellenza anche nelle opere di autori disinteressati -orgogliosamente o meno- alla stesura del grande romanzo americano, e che il cielo li conservi.
Poi si potrebbe aprire una polemica sulle istanze di cui si è appropriata la critica (o metacritica) decostruzionista, ma bisognerebbe anche esserne in grado e io lo sono fino a un certo punto: e stavo dicendo.
Pur essendo più giovane e più intimo frequentatore dei prodotti dell'industria culturale di massa, Jonathan Safran Foer è uno di quelli. Jonathan Safran Foer è uno di quelli che ha fissa in testa l'idea di scrivere un romanzo che non sia per tutti, ma che sia soprattutto di tutti gli americani. Io non so se lui lo sa, lo pensa, lo rivendica: ma per me è così. Dalla prodigiosa carriera universitaria ai racconti pubblicati sul New Yorker, molte caratteristiche della sua produzione guardano là, in direzione del marmo letterario, della pietra miliare, dello spartiacque fondamentale. È un furbastro? È un ambizioso? È matto come un cavallo? Non importa. Lui ci prova. Ci ha provato prevalentemente sullo slancio del ricorso a strutture narrative concentrate su scenari storici legati a drammi condivisi, dolori nazionali, tragedie collettive. Al primo giro, con lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento, al secondo con gli attentati dell'undici settembre. 
Ho letto Molto forte, incredibilmente vicino qualche anno fa. L'ho trovato un romanzo stupendo, ricco, difficilissimo da scrivere e facilissimo da leggere. Al di là delle doti e dell'attitudine di Safran Foer, che mi sembrano piuttosto indiscutibili, il romanzo ha la caratteristica di srotolare un mondo privato, intimo e chiuso in se stesso con un tocco delicato, sentimentale, mai sentimentalista, e malgrado ciò -qui sta molta della bravura di S.F.- quasi mai retorico mettendolo in relazione alle implicazioni sociali del dramma che ha sconvolto gli Stati Uniti. Non sto parlando del piano interpretativo delle metafore (Cioè quindi allora fammi capire il bambino è l'americano medio che dopo gli attentati ha perso il padre quindi ha perso la memoria quindi ha perso i valori ed è disorientato e quindi cerca se stesso per trovare un senso e poi capisce che alla fine l'importante non è trovare ma cercare?), ma della funzione evocativa svolta della quantità di storie personali e di microcosmi frenetici e incistati che Oskar frequenta durante la sua ricerca. Al di là di quanto uno si possa affezionare al nozionismo nerd coltivato dal ragazzino, al di là di quanto uno si faccia tirare dentro dal candore autistico di un orfano devastato dall'irrimediabilità della perdita e dallo strazio dei sensi di colpa, la cosa più notevole del lavoro di Safran Foer è un'altra, in fin dei conti: è aver tentato di raccontare il collettivo per mezzo di un affastellamento di questioni private, aver provato a mettere insieme il grande affresco sociale rinunciando al livello allegorico e ricorrendo invece alla tradizione più disimpegnata dello storytelling americano: aver tentato di fare il serio con storie facete. Si tratta di una rivisitazione anche molto acuta del procedimento di alcuni maestri del romanzo ottocentesco: mentre in Tolstoj e Hugo (ma anche in Fenoglio) la grande storia (le invasioni napoleoniche, o la rivoluzione francese) s'intreccia con la piccola cronaca sul piano delle vicende biografiche dei protagonisti, Safran Foer rovescia l'intreccio di cui sopra spostando il racconto sulla focalizzazione dei sopravvissuti. Non c'è la grande storia, in Molto forte, incredibilmente vicino: c'è quel che ne rimane, c'è quel che se ne ricorda, c'è chi le è scampato. Ma pur concentrandosi sui resti, il romanzo porta alla luce un sacco di America, e in una volta sola.
Il problema della trasposizione cinematografica che ne è stata fatta è di due tipi, secondo me. Il primo è relativo al ragazzino: non so se sono io, ma a me l'Oskar del film è risultato un po' antipatico. Conserva tutta la cultura precocemente enciclopedica che ha nel libro, ma perde molta della spontaneità, della piacevolezza, del gusto intellettuale per le minchiatelle. Sa un sacco di cose, ma ci si chiede quante ne sappia per curiosità spassionata e quante per esibizionismo pre-adolescenziale. Restituisce solo superficialmente, il film, le caratteristiche della relazione col padre; relazione coltivata su passatempi quotidiani ma al tempo stesso seriali, su giochetti logici appassionanti, sulla condivisione esclusiva di codici e riferimenti dotti, ma al tempo stesso carezzevoli, dolci, profondi. Privato di quella morbidezza affascinante e tenera, di quella (qui potrei citare Don Chisciotte, facciamo che lo lascio tra parentesi) rettitudine da sprovveduto vero, al personaggio di Oskar resta addosso la storia di un bambino più o meno arrabbiato col mondo perché qualcuno gli ha portato via il suo giocattolo preferito. 
Il secondo problema del film è che non c'è l'America. Ma nemmeno un po'. E andrei avanti ad argomentare, ma non saprei come. Per motivi probabilmente anche comprensibili e ragionevoli, nel film non c'è nulla di sociale, condiviso, americano. Gira quasi tutto attorno a Oskar: va bene che al cinema la sofferenza personale e i disturbi sociopatici tendono a funzionare facilmente -e qui ci sono entrambi, figuratevi- ma Oskar è un ragazzino antipatico a cui è morto il padre.

Poi vabbé, in generale il film non è nemmeno brutto, se si dimentica il romanzo da cui è tratto. Alla fine della proiezione che ho visto io, c'è stato tutto un armeggiare di pacchetti di fazzoletti di carta da parte del pubblico femminile. E quando succede così, si riconosce il valore universale della testimonianza rilasciata da un'anziana signora durante un esame di storia del cinema che ho sostenuto un paio d'anni fa: "Bello! Ho fatto tanto di quel piangere!"

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