martedì 11 gennaio 2011

Avrebbe preferito andarci d'inverno

Invece di studiare un po' di letteratura italiana, sto guardando online pezzi e pezzettini di cose su De André. Che oggi sono diversi anni che è morto.
E io De Andrè lo conosco male, ma bene. Cioè conosco molto bene la parte più mainstream della sua produzione, il suo nutrito mucchietto di canzoni impeccabili e poderose, quelle che qualunque appassionato di musica, per un motivo o per l'altro, più o meno deve conoscere. Però conosco quelle, appunto. Di un gruppo come i Baustelle, per nominarne uno a caso, ne conosco molte di più, e conosco anche i pezzi minori. Questo giusto per chiarire un po' la mia posizione: per quanto mi inginocchi alla sua bravura, non sono un fan, di De Andrè. Non ho mai passato pomeriggi ad ascoltarlo. Sono scemo? Eccome.

E non lo so, ma rivedendo questi filmati, mettendoli insieme ai commenti che si fanno sempre su di lui, ho idea che la percezione collettiva di De Andrè lo stia trasformando in qualcosa che -immagino- De Andrè stesso non volesse diventare. Cioè un mito, un'icona. Uno di quelli che poi si impolvera e, qualche capriola dopo, diventa un intoccabile della cultura nazionale. Tipo Ungaretti, per dire.
Cosa c'è di male? Boh, forse niente.
Però mi sembra che questa imbalsamazione stia sottraendo a De Andrè una parte consistente della sua figura. E cioè quella un po' sbandata, satirica, bruciante, quella da cantastorie radicale, da rivisitatore di Cecco Angiolieri.
Perché può pure finire sui manuali di storia della letteratura italiana, De Andrè. E molti suoi fan ne sarebbero felici. Io stesso ne sarei felice, se non temessi che questo passaggio e questa consacrazione post-mortem cancellino dalle sue qualità autentiche il lato più dirompente e affascinante del suo contributo musicale.
Parlo del De Andrè delle puttane, del non avevano leggi per punire un blasfemo, del vino, dei pescatori che aiutano gli assassini e dei gorilla che scappano dalla gabbia per inculare i giudici infami. Parlo di tutto quel solido e ricorrente strato di riferimenti alla cultura profana, goliardica e dissacrante che risale al Medioevo e che lui esprimeva con una modernità, una spontaneità e una consapevolezza che nessun altro, né prima né dopo.
Mi sembra che questo lato della produzione e -più in esteso- della vita di De Andrè si sia molto sciupato, soprattutto perché sacrificato sull'altare della retorica secondo cui De Andrè è un poeta, un intellettuale, un maestro di linguaggio.
Come se i due lati fossero percepiti in rapporto d'inconciliabilità automatica, e si preferisca concentrarsi sui diamanti, abbandonando il letame.
Dal quale, però, e questa è troppo facile, nascono i fior.

1 commento:

Nich ha detto...

Ottima riflessione, concordo appieno! Personalmente però non riesco ad idolatrarlo proprio per quel suo spirito talvolta eccessivamente anarchico per i miei gusti.