giovedì 14 giugno 2012

- "Why did you donate your sperm?" - "Because it seemed more fun than donating blood."

Quando nel 1974 ci fu il referendum abrogativo della legge sul divorzio, una bella fetta della propaganda per il sì (quindi contraria al riconoscimento del diritto di sciogliere un matrimonio) impostò la battaglia su un argomento che stava dalle parti del ricatto bello e buono. "E i figli?" Chiedevano democristiani, post-fascisti e monarchici, paventando legioni di disadattati cronici vittime della decisione dei genitori di separare le proprie vite. Essendosi probabilmente resi conto di quanto fosse anacronistica e debole una visione della società fondata sullo scudo religioso della grazia di Cristo che si traduce in termini umani per mezzo dei sacramenti accompagnando così il cammino spirituale dei peccatori sulla terra, i cattolici più conservatori dello schieramento italiano tirarono dentro i figli come argomento concreto e sostanziale della loro linea. Perché i figli -un po' come "la vita" quando si parla di aborto o eutanasia- hanno un portato metaforico pervasivo, sono il jolly di qualsiasi argomentazione, l'assegno in bianco da presentare a qualsiasi obiezione. I figli sono i figli, non c'è bisogno d'aggiungere altro. Dopo la benvenuta vittoria dei "no", quello che successe in Italia fu più o meno questo: i figli cresciuti in coppie divorziate sono in un primo tempo cresciuti con i loro problemi e le loro difficoltà. Tuttavia col passare del tempo, tenetevi forte, il tempo tende a passare e la società italiana ha preso le misure della curva di flessione culturale implicata dalle condizioni di vita delle coppie divorziate e ha alleggerito la saccoccia di drammi ed eventuali traumi cascati addosso ai figli delle suddette coppie. La variabile del tempo è sempre fondamentale in questi casi, ma gli alfieri del conservatorismo famigliare sembrano scordarselo continuamente: oggi quelle povere vittime dell'egoismo, quei poveri agnelli dell'insufficiente carità cristiana dei genitori, quegli innocenti frutti di un sacramento successivamente violato sono divenute persone normali, figli normali, genitori normali, compagni di banco, meccanici, panettieri e agenti finanziari: hanno i loro problemi, i loro conflitti, le loro preoccupazioni, le loro soddisfazioni e le loro delusioni. Perché? Perché sono come tutti gli altri.
Quanto ai grandi temi: la società è più libera, le sue istituzioni più laiche, le donne che la costruiscono sono più indipendenti, le scelte che fanno sono più consapevoli. E i tempi legali per ottenere un divorzio sono ancora troppo lunghi. 

L'anno scorso ho visto The kids are alright, un bel film con Mark Ruffalo che racconta la storia di una famiglia in cui vivono due signore lesbiche con i loro figli, entrambi nati dalla fecondazione in vitro che ciascuna donna ha sperimentato con il medesimo donatore di sperma. Si tratta di un bel film: quando lo vidi, mi divertì molto tentare d'immaginare i pensieri che affollavano la testa del resto del pubblico. Era una proiezione estiva organizzata presso la biblioteca di un piccolo paese di provincia: non esattamente un tempio del pensiero liberale di larghe vedute.

Io non ho mai avuto particolari opinioni sul tema dell'adozione da parte di coppie gay. Mi sono sempre riconosciuto nella saggezza universale del binomio "Perché no?", riscontrando di volta in volta una certa debolezza ideologica delle posizioni espostemi. Ho sempre avuto la sensazione, insomma, che la risposta alla mia domanda circa le ragioni per negare questo diritto alle coppie omosessuali fosse: "Perché di no." Che dal punto di vista politico non mi sembra una considerazione centrale.

Ieri ho letto quest'articolo su Slate. Consiglio di leggerlo a chiunque voglia avere elementi concreti e circostanziati sul tema delle adozioni da parte di coppie omosessuali. Dopo averlo fatto, consiglio di leggere questo post, in cui sono evidenziate le faziosità e le disonestà intellettuali con cui è stata strumentalizzata la ricerca di cui si parla nell'articolo. 

mercoledì 13 giugno 2012

"Son tutti uguali"

In questi giorni sono abbastanza parziale con lui perché sto ascoltando la lettura che ha fatto de Memorie del sottosuolo e la trovo formidabile. Però voglio segnalare che Paolo Nori ha scritto una cosa intelligentissima sulla mediocrità della posizione del nuovo sindaco di Parma sul tema centrale relativo alla sua vittoria: l'inceneritore. 
Allora io mi son chiesto, ho detto: ammettendo che l’inceneritore non si faccia, il comune di Parma, finché non si arriverà (tra dieci anni? tra cinque anni?) all’auspicato e auspicabilissimo traguardo dei rifiuti zero, continuerà comunque a produrre rifiuti, e questi rifiuti, se non li bruceranno a Parma, dove li bruceranno? Ecco: il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, se risolvesse le difficoltà delle quali si è reso conto dopo essere diventato sindaco di Parma e riuscisse ad attuare questo punto centrale della sua campagna elettorale, i rifuti di Parma li manderebbe a bruciare in Olanda. A chi gli ha fatto notare che così, secondo le sue stesse teorie, aumenterebbe la mortalità dei bambini olandesi, il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, sembra abbia risposto: «In Olanda non governo io».

martedì 5 giugno 2012

Molto Oskar, incredibilmente Oskar

Nel 1868, uno scrittore americano di nome John William Deforest ha scritto un saggio che ha avuto il merito di abbozzare le caratteristiche di un modello letterario della narrativa statunitense di grande fortuna nei decenni a venire. La sua tesi era più o meno la seguente: mentre il canone del romanzo borghese in Europa conquistava vette di grandezza mirabile grazie ai capolavori di Dickens, Hugo e ballotta realista al seguito, la più acerba scuola letteraria americana faticava a partorire opere d'ingegno capaci di raccontare in modo definitivo e memorabile le complessità e le contraddizioni interne al corpo sociale. In poche parole, nonostante qualche tentativo effettuato da Washington Irving e Herman Melville, nessuno nel nuovo mondo aveva ancora scritto il grande romanzo americano. O, come lo chiamava Deforest, The Great American Novel
Il grande romanzo americano è divenuto nel Ventesimo Secolo l'ideale di riferimento per una quantità di scrittori formidabili: da Scott Fitzgerald a De Lillo, da Faulkner a Lee, molti autori hanno cercato di produrre opere giganti, ambiziose, capaci di raccogliere forme e contenuti dell'epica a stelle e strisce. Nel frattempo, si capisce, altri scrittori prosperavano grazie a contributi meno ambiziosi, più immediati, meno ricercati, svincolati dal tenore accademico dei nomi più prestigiosi. Parlo di Flannery O'Connor e di J.D. Salinger, per esempio, ma anche di Philip K. Dick, per capirci. E non stiamo a fare le pippe al gatto cercando di stabilire gerarchie schematiche: la letteratura è ricerca dell'umano, non ci sono criteri metodologici indiscutibili in base ai quali l'ambizione di scrivere la rappresentazione narrativa di grandi fenomeni storici e sociali sia di per sè un valore aggiunto e segnalatore di qualsivoglia profondità. Gli scrittori raccontano storie: quello che ci buttano dentro è il loro modo di farlo. C'è molta eccellenza anche nelle opere di autori disinteressati -orgogliosamente o meno- alla stesura del grande romanzo americano, e che il cielo li conservi.
Poi si potrebbe aprire una polemica sulle istanze di cui si è appropriata la critica (o metacritica) decostruzionista, ma bisognerebbe anche esserne in grado e io lo sono fino a un certo punto: e stavo dicendo.
Pur essendo più giovane e più intimo frequentatore dei prodotti dell'industria culturale di massa, Jonathan Safran Foer è uno di quelli. Jonathan Safran Foer è uno di quelli che ha fissa in testa l'idea di scrivere un romanzo che non sia per tutti, ma che sia soprattutto di tutti gli americani. Io non so se lui lo sa, lo pensa, lo rivendica: ma per me è così. Dalla prodigiosa carriera universitaria ai racconti pubblicati sul New Yorker, molte caratteristiche della sua produzione guardano là, in direzione del marmo letterario, della pietra miliare, dello spartiacque fondamentale. È un furbastro? È un ambizioso? È matto come un cavallo? Non importa. Lui ci prova. Ci ha provato prevalentemente sullo slancio del ricorso a strutture narrative concentrate su scenari storici legati a drammi condivisi, dolori nazionali, tragedie collettive. Al primo giro, con lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento, al secondo con gli attentati dell'undici settembre. 
Ho letto Molto forte, incredibilmente vicino qualche anno fa. L'ho trovato un romanzo stupendo, ricco, difficilissimo da scrivere e facilissimo da leggere. Al di là delle doti e dell'attitudine di Safran Foer, che mi sembrano piuttosto indiscutibili, il romanzo ha la caratteristica di srotolare un mondo privato, intimo e chiuso in se stesso con un tocco delicato, sentimentale, mai sentimentalista, e malgrado ciò -qui sta molta della bravura di S.F.- quasi mai retorico mettendolo in relazione alle implicazioni sociali del dramma che ha sconvolto gli Stati Uniti. Non sto parlando del piano interpretativo delle metafore (Cioè quindi allora fammi capire il bambino è l'americano medio che dopo gli attentati ha perso il padre quindi ha perso la memoria quindi ha perso i valori ed è disorientato e quindi cerca se stesso per trovare un senso e poi capisce che alla fine l'importante non è trovare ma cercare?), ma della funzione evocativa svolta della quantità di storie personali e di microcosmi frenetici e incistati che Oskar frequenta durante la sua ricerca. Al di là di quanto uno si possa affezionare al nozionismo nerd coltivato dal ragazzino, al di là di quanto uno si faccia tirare dentro dal candore autistico di un orfano devastato dall'irrimediabilità della perdita e dallo strazio dei sensi di colpa, la cosa più notevole del lavoro di Safran Foer è un'altra, in fin dei conti: è aver tentato di raccontare il collettivo per mezzo di un affastellamento di questioni private, aver provato a mettere insieme il grande affresco sociale rinunciando al livello allegorico e ricorrendo invece alla tradizione più disimpegnata dello storytelling americano: aver tentato di fare il serio con storie facete. Si tratta di una rivisitazione anche molto acuta del procedimento di alcuni maestri del romanzo ottocentesco: mentre in Tolstoj e Hugo (ma anche in Fenoglio) la grande storia (le invasioni napoleoniche, o la rivoluzione francese) s'intreccia con la piccola cronaca sul piano delle vicende biografiche dei protagonisti, Safran Foer rovescia l'intreccio di cui sopra spostando il racconto sulla focalizzazione dei sopravvissuti. Non c'è la grande storia, in Molto forte, incredibilmente vicino: c'è quel che ne rimane, c'è quel che se ne ricorda, c'è chi le è scampato. Ma pur concentrandosi sui resti, il romanzo porta alla luce un sacco di America, e in una volta sola.
Il problema della trasposizione cinematografica che ne è stata fatta è di due tipi, secondo me. Il primo è relativo al ragazzino: non so se sono io, ma a me l'Oskar del film è risultato un po' antipatico. Conserva tutta la cultura precocemente enciclopedica che ha nel libro, ma perde molta della spontaneità, della piacevolezza, del gusto intellettuale per le minchiatelle. Sa un sacco di cose, ma ci si chiede quante ne sappia per curiosità spassionata e quante per esibizionismo pre-adolescenziale. Restituisce solo superficialmente, il film, le caratteristiche della relazione col padre; relazione coltivata su passatempi quotidiani ma al tempo stesso seriali, su giochetti logici appassionanti, sulla condivisione esclusiva di codici e riferimenti dotti, ma al tempo stesso carezzevoli, dolci, profondi. Privato di quella morbidezza affascinante e tenera, di quella (qui potrei citare Don Chisciotte, facciamo che lo lascio tra parentesi) rettitudine da sprovveduto vero, al personaggio di Oskar resta addosso la storia di un bambino più o meno arrabbiato col mondo perché qualcuno gli ha portato via il suo giocattolo preferito. 
Il secondo problema del film è che non c'è l'America. Ma nemmeno un po'. E andrei avanti ad argomentare, ma non saprei come. Per motivi probabilmente anche comprensibili e ragionevoli, nel film non c'è nulla di sociale, condiviso, americano. Gira quasi tutto attorno a Oskar: va bene che al cinema la sofferenza personale e i disturbi sociopatici tendono a funzionare facilmente -e qui ci sono entrambi, figuratevi- ma Oskar è un ragazzino antipatico a cui è morto il padre.

Poi vabbé, in generale il film non è nemmeno brutto, se si dimentica il romanzo da cui è tratto. Alla fine della proiezione che ho visto io, c'è stato tutto un armeggiare di pacchetti di fazzoletti di carta da parte del pubblico femminile. E quando succede così, si riconosce il valore universale della testimonianza rilasciata da un'anziana signora durante un esame di storia del cinema che ho sostenuto un paio d'anni fa: "Bello! Ho fatto tanto di quel piangere!"

lunedì 4 giugno 2012

"He shall from time to time"

Ho appena letto della scelta di Renzi di nominare due nuovi assessori, uno alla cultura e uno al bilancio. 

La motivazione offerta dal sindaco mi sembra una cosa stucchevole e paracula, però visto che sono in un periodo di botta dura per The West Wing, mi è venuto in mente che il tema lanciato da Renzi è discusso anche nella prima stagione.

Come sappiamo più o meno tutti, ogni anno il presidente americano è chiamato a tenere un discorso complessivo sullo Stato dell'Unione. A livello politico, si tratta di una delle operazioni comunicative più complesse e delicate del pianeta, attorno alla quale si raccoglie un investimento professionale sostanzialmente maniacale. Insomma, sono americani: bisogna voler loro bene così. Una delle curiosità che gira attorno allo State of the Union -di quelle che rende più spontaneo l'affetto per quei balordi a stelle e strisce- è la figura del designated survivor. Dato che al discorso dello Stato dell'Unione è presente praticamente qualsiasi rappresentante delle istituzioni americane, la prassi costituzionale prevede che un membro del governo venga individuato con lo scopo di non partecipare. Insomma, hai visto mai che una bomba o un aereo o un virus faccia saltare in aria tutta la questione, è assicurata la sopravvivenza di una personalità eletta e ufficialmente riconosciuta dall'autorità del mandato costituzionale. E c'è dentro un pezzo non trascurabile di cultura americana, in questa cosa del sopravvissuto designato ma ne parliamo un'altra volta, eh?
Dicevo, in The West Wing c'è un episodio che racconta la storia dello State of the Union; verso la fine il presidente incontra il designated survivor, e gli suggerisce di comportarsi così, nel caso in cui "succedesse qualcosa":
"You got a best friend?"
"Yes, sir."
"Is he smarter than you?"
"Yes sir."
"Would you trust him with your life?"
"Yes sir."
"That's your chief of staff."
A me va molto bene che Renzi si sforzi di comunicare in modo onesto e spontaneo: ma se vuole evitare uscite sconclusionate e sbrodolanti, gli conviene sentire Aaron Sorkin e dargli un posto da capoufficio stampa.

domenica 3 giugno 2012

"Ci si dimentica", è che siamo sbadati

Al di là del fatto che racconta molto bene la storia di Rignano, quest'articolo di Claudio Cerasa descrive perfettamente un meccanismo distorto e incattivito del rapporto fra giustizia e giornalismo. A mio avviso, si tratta di un meccanismo che produce a sua volta opinioni distorte e incattivite:
In Italia, non si sa bene perché, ma la difesa del diritto di un indagato è inversamente proporzionale alla gravità del reato contestato. Insomma, per farla breve, più è pesante il reato per cui sei accusato e meno certezze avrai che i tuoi diritti da indagato saranno rispettati. [...] Ci si dimentica di far notare che gli indagati potrebbero anche non essere colpevoli, e alla fine la sentenza viene in qualche modo socialmente e mediaticamente formulata prima ancora che arrivi un grado di giudizio. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: qualsiasi sarà l’esito del processo, chi è convinto che la strega sia una strega non avrà mai pace finché qualcuno non riuscirà a dimostrare che quella strega è davvero una strega”.

giovedì 31 maggio 2012

Una cosa veloce sul terremoto

La Terra si fa i cazzi suoi, e a volte se li fa secondo modalità e tempistiche che travolgono la vita delle specie viventi che la abitano. Non c'è niente di eccezionale o di incredibile. E certo, quando c'è un terremoto la gente muore. Ma fermarsi a questa considerazione non basta. Resta da capire se e quanto fossero evitabili le morti, perché lo fossero e perché non lo siano state. 
Sulle implicazioni economiche e politiche della vicenda, Gian Antonio Stella ha scritto e ripetuto cose che condivido:
Molto più gravi sono le responsabilità di chi negli anni si è opposto a ogni irrigidimento (norme più facili ma rigide) sulla sicurezza. Nella convinzione che non valesse la pena di infastidire i cittadini e le aziende, obbligati a spendere di più senza essere mai stati informati dei rischi che correvano. Un errore suicida. Per decenni, finché la natura non tornava a ricordare con nuove distruzioni come le catastrofi del passato possano ripetersi, la grande maggioranza degli amministratori nazionali e locali ha preferito costantemente derubricare i rischi sismici, geologici, ambientali di questo e quel territorio piuttosto che affrontare la realtà. C’è un saggio («La classificazione e la normativa sismica italiana dal 1909 al 1984» di autori vari) che spiega tutto: la mappa delle aree pericolose è stata composta di scossa in scossa. Con l’aggiunta via via di Messina e Reggio nel 1908, di Avezzano e della Marsica nel 1915, del Riminese nel 1916, della Val Tiberina nel 1917, del Mugello nel 1919, della Garfagnana nel 1920 e avanti così... Come se lo Stato si rassegnasse a riconoscere man mano, quando era ormai impossibile continuare a negarlo, ciò che non solo gli studiosi ma i vecchi abitanti dei luoghi sapevano. E questo processo, con il rattoppo continuo delle mappe delle zone a rischio, è proseguito fino ai nostri giorni. Senza che mai venisse definita una mappa finale che non fosse una pura accumulazione di variegate mappe precedenti. È una seccatura, finché non crollano il campanile, le case e i capannoni, accettare la definizione di area sismica più o meno esposta al pericolo.

"I'm never going to see a Mer-man"

Dopo aver girato un importante film d'exploitation (L'ultima casa a sinistra) e aver messo in piedi la fortunata saga di Nightmare, nel 1996 Wes Craven fece uno di quei film per cui gli appassionati di Horror non hanno ancora capito se devono ringraziarlo per aver segnalato una certa schematicità dei meccanismi di funzionamento del genere o maledirlo da qui all'eternità per aver innescato il successivo spostamento del genere medesimo verso ambiti storti e farlocchi come il Torture Porn (i vari Saw, Hostel eccetera). Nel caso ve lo foste chiesti e la cosa v'interessi, io sono un fan del primo Argento, di Carpenter e di Raimi: non credo nell'inferno, ma se ci credessi vorrei che Craven ci finisse devastato dalla visione eterna e ininterrotta di questa puntata di Settimo Cielo
Ma insomma, Scream era un Horror che parlava degli Horror in modo esibito, autoreferenziale, con il ditino puntato e la mano alzata per rispondere alle domande dell'insegnante: una metapippa senz'altro acuta ma molto -troppo- compiaciuta delle sue capriole narrative e della sua autoreferenzialità. Chi lo difende sostiene che si tratti di un omaggio al genere, ma dagli omaggi dovrebbe trapelare una passione e una gratitudine che io in Scream non colgo minimamente.
Coi generi funziona così, a volte: quando sono inariditi dal manierismo e dai canoni convenzionali, quando la loro fruizione si svuota di significato o quando più banalmente le cose sono cambiate, si produce un momento di parodia farsesca e giocosa dei loro archetipi fondanti. C'è stata la Batracomiomachia per l'epica classica, L'Orlando furioso per l'epica cavalleresca medievale, c'è stato Scream per il genere Horror del cinema contemporaneo. 
Messa così è un po' ardita e forse fuori luogo, ma venitemi incontro: la sostanza è quella; e il problema di Scream è che Ariosto non solo conosceva perfettamente le canzoni di gesta che intendeva perculare, ma è stato anche capace di arricchire la sua opera formulando nuovi modelli letterari legati alla figura dell'eroe, nobilitando la frammentazione dell'impianto narrativo tramite l'orchestrazione di coincidenze e accidenti sincronizzati, mettendo in scena vicende sentimentali appassionanti e senz'altro più realistiche di certe derive angelicate dell'amor cortese, esprimendo una quantità di riferimenti alle piccinerie della vita di corte che tanto detestava ma con cui doveva convivere. Quindi ben venga la metanarrazione, ma se all'idea di partenza non aggiungi un grammo sei solo il secchione in prima fila.
Joss Whedon è nella stessa classe di Craven, ed è da poco uscito con The Avengers e Quella casa nel bosco. Ho visto Quella casa nel bosco due sere fa, e l'ho trovato una roba divertentissima e spaventosa. Riprende in mano tutto il procedimento meta di Scream, ma lo rinforza con una cornice esterna che ha una funzione comica straordinaria ed è in grado nel frattempo di non neutralizzare i momenti di paiuia dura che ci sono dentro la cornice. Grazie a quest'idea decisiva, Whedon è riuscito dove Craven ha inteso ma poi fallito: testimoniare l'amore -personale, prima ancora che professionale- per il genere senza limitarsi al giochino ozioso e smaccato. Difficile dire di più senza rovinare la visione: io pensavo di andare a vedere un gingillone come altri cento, e invece ho visto un Teen-Horror onesto ed efficace che fa ammazzare dal ridere.

mercoledì 30 maggio 2012

"Il fatto non sussiste"

Qualche anno fa, dopo aver letto e condiviso i primi dubbi sulla credibilità delle accuse rivolte alle maestre di Rignano, mi sono letto un po' di cose relative a casi di psicosi collettiva scatenati da una quantità di elementi analoghi come: indagini giudiziarie approssimative e superficiali, pessimo lavoro giornalistico sconfinante nella persecuzione mediatica, funzione di numerose famiglie coinvolte nel ruolo di canali amplificatori dell'isteria e testimonianze completamente inventate da parte di un gruppo anche abbastanza nutrito di bambini piccoli. C'è il caso McMartin, per esempio, che ha anche avuto una sua rappresentazione cinematografica molto interessante. Quello che deprime e che sconforta è prendere atto del vortice in cui vengono schiantate le vite di tutti i protagonisti in conseguenza di un fenomeno che non si è verificato. Non c'è niente di buono, in queste storie. Ci sono vite rovinate, dappertutto: rovinate le vite degli insegnanti, compromesse le vite dei genitori, devastate le vite dei bambini. Come se non bastasse, la storia orrenda di Rignano sembra essersi conclusa e invece non lo ha fatto: e Leonardo ci ha scritto un post molto bello. Si chiude così:
Sono ancora profondamente incazzato per gli innocenti che si sono fatti cinque anni di processo, per i bambini convinti di essere stati abusati, per i loro genitori che se ne sono convinti e che li hanno aiutati a convincersi; mi vergogno di vivere in un paese dove processi del genere si allungano per cinque anni, e i blog si sequestrano per un sospetto. L'incubo per me non finisce qui, non credo che debba finir qui per nessuno.

domenica 27 maggio 2012

"Like Mother Teresa with first strike capabilities" (cit.)

Sabato sera mi è capitato di discutere con un amico di un po' di cose diverse ma tutte relative a temi complessi, giganteschi, spigolosi. Stavamo condividendo qualche parere sulle scarse e panoramiche letture di studi antropologici fatte da entrambi, quando a un certo punto gli ho detto una cosa come: "Sono cose molto affascinanti, ma penso che ci sia un po' troppo relativismo culturale di sfondo." La mia affermazione è stata poi saggiamente corretta da un'amichetta che mi ha detto qualcosa come: "Sì, però il compito degli antropologi è osservare e studiare, non valutare." Era convinta di aver ragione e me l'ha dimostrato, convincendomi: ma non diteglielo, che altrimenti si arrabbia.
Ma insomma, da quella mia frase si è scatenata una serie di scambi di idee poste in contrapposizione molto frontale. E dato che mi sono accorto di pensare cose di cui non avevo una vera consapevolezza strutturata -mi succede spesso nelle discussioni: è una delle cose più belle che ci sia- provo a ritirare le fila del discorso. Perché le parole sono importanti, ma la rielaborazione di esse non è da meno.
Tanto per cominciare, buona parte dei miei criteri orientativi rispetto alle cose del mondo è imbevuta di illuminismo. Io vado matto per l'Illuminismo. E visto che "l'Illuminismo" non esiste, ma esistono invece diverse correnti interne a un movimento a sua volta dinamico e articolato, esplicito subito qualche declinazione in più: parlo dell'illuminismo ateo, riformista, repubblicano e democratico, razionalista, egualitario, cosmopolita, umanitario. Io riconosco un sacco di cose che credo buone e giuste in quest'ambito della storia del pensiero umano, e ritengo che soddisfino bisogni universali. Dite che mi sbaglio? Provate a convincermi, ve ne sarò molto grato.
In conseguenza logica delle mie idee, io penso che esistano diritti naturali e inalienabili che devono essere riconosciuti a qualsiasi essere umano, sempre e ovunque, in quanto essere umano. Parlo della libertà di pensiero e di parola e di stampa, della libertà di emancipazione dall'ignoranza, della libertà dalla tirannia e dalla schiavitù e dal fanatismo in qualsiasi sua forma. E mica è facile, mettere in piedi un mondo fatto così. Non c'è nulla di più difficile, invece. Ma si fa dove si può, dove si riesce, dove si deve, un pezzo alla volta. E si fa perché è giusto, perché non esiste soluzione razionale e argomentata che possa giustificare un'offesa a diritti e libertà in ragione di un contesto nazionale e/o culturale. Un uomo che picchia la moglie commette la stessa offesa ai diritti umani sia che la picchi al 100 Upper Side di Manhattan sia che la picchi in un sobborgo di Shanghai o in una baraccopoli ugandese. Si può contestualizzare, naturalmente, si può e si deve esaminare ogni singola circostanza, analizzarla sotto molteplici punti di vista con un procedimento logico e fondato su evidenze empiriche. Ma dal punto di vista etico non si può definire più o meno grave una violazione dei diritti umani in ragione di un dato culturale. Una violazione è una violazione, un diritto è un diritto e una vita vale una vita: tutti i giorni, in tutte le parti del mondo. L'argomento che poi mi fa imbestialire -paradossalmente cavalcato sia da interlocutori che si dichiarano "di sinistra" o "di sinistra radicale" che da conservatori retrogradi ributtanti come Daniala Santanché e Mario Borghezio- è quello appunto relativista, soprattutto nel momento in cui afferma che qualsiasi costume e comportamento è giustificato e accettabile perché inserito in un quadro culturale specifico, che, in quanto tale, ha una sua valenza imprescindibile. Il principio è benintenzionato, e può anche suonare come una cosa equilibrata, egualitaria e open-minded. Ma ha implicazioni invece discutibili, se non violente e brutali. L'idea che qualsiasi cultura abbia valore in quanto cultura non fa i conti con il problema dei diritti e delle libertà, appunto. C'è una differenza sostanziale fra pluralismo e relativismo culturale, da questo punto di vista: accettare più di un'idea e più di uno stile di vita e più di un punto di vista è un'inclinazione ovviamente benvenuta, ma non può essere messa sullo stesso piano -in fin dei conti dogmatico- di accettare qualsiasi idea, stile di vita e punto di vista. 
E a questo punto non può che emergere la citazione della pratica dell'infibulazione. Come la mettiamo, con l'infibulazione? La accogliamo come un costume culturale e di conseguenza la accettiamo perché siamo tanto rispettosi delle culture diverse dalle nostre? E se qualsiasi cultura è meritevole di rispetto, in che modo traduciamo questo principio a livello legislativo? Chi siamo noi per eccetera eccetera? E nel frattempo siamo in pace col fatto che milioni di donne finiscano vittima di una violazione crudelissima dei loro diritti personali? 
C'è un repertorio di affermazioni quali "rispettare tutte le culture" e "rispettare tutte le idee" che mentre dal punto di vista linguistico hanno una loro efficacia e segnalano una quantità di intenzioni tolleranti, dal punto di vista pratico si annettono a conseguenze rovinose e drammatiche. Da quando abbiamo confuso il rispetto della persona con il rispetto delle sue idee? Per quale motivo dovremmo rispettare le idee di una persona -o di un costume culturale- che ritiene giusto e necessario mutilare l'apparato genitale di una donna con la pretesa folle e agghiacciante di preservarne la purezza? L'infibulazione è un esempio che mette tutti d'accordo: ma se ne possono fare a decine, e diversi fra loro. Dal diritto allo studio (Sì, le bambine indiane non vengono a scuola. Però cosa vuoi dire ai genitori, è la loro cultura) al cannibalismo, dalla lapidazione delle adultere (Lo fanno per motivi religiosi, chi siamo noi per?) allo stupro in famiglia.
Ammettiamo e concediamo che questi e altri costumi barbarici facciano parte "della loro cultura": per quale motivo dovremmo considerare il fenomeno come una scusante e non come un'aggravante? Per quale motivo non dovremmo preoccuparci del fatto che certune pratiche culturali sono irrispettose dei diritti umani e delle libertà personali? Per quale motivo abbiamo a cuore diritti che in Italia coltiviamo e pratichiamo e difendiamo quotidianamente ma che al tempo stesso giudichiamo incompatibili o inapplicabili o estranei a tradizioni e "culture" distanti dalle nostre? Condanniamo Emilio perché dà un cazzotto a Giuliana, e giustifichiamo Ahmed perché lo dà a Nisrita? E in che modo questo metro doppio non fa di noi persone malevole, superficiali o addirittura razziste? 

A questo punto si potrebbe aprire la pagina dell'interventismo e della neutralità. Come ci si comporta quando in un Paese  sovrano si verificano violazioni gravi dei diritti umani come pulizie etniche, persecuzioni o massacri di civili? Durante il gennaio dell'anno scorso, Gheddafi tirava bombe in testa a sudditi che protestavano contro il suo regime autoritario e repressivo, minacciando di farne carne da macello per mezzo dell'esercito: che si fa? Se siamo d'accordo nel qualificare le decisioni di Gheddafi come ingiustizie, che facciamo? Stiamo a guardare, appellandoci alla neutralità, perché "Chi siamo noi?" e rispettiamo un principio politologico di derivazione ottocentesca come quello di non ingerenza dell'altrui sovranità nazionale? Oppure ci facciamo carico della tutela di principi di libertà e diritti umani -quello di vivere, tipo- intervenendo -anche con la forza: anche con la forza militare- per arginare e raddrizzare situazioni in cui si configura il rischio di emergenze umanitarie?
Tema un'altra volta articolato e controverso. Intanto me la cavo citando le parole di uno che ammiro parecchio, che sa il fatto suo e che di mestiere fa il Presidente degli Stati Uniti:
For make no mistake: Evil does exist in the world. A nonviolent movement could not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot convince Al Qaeda’s leaders to lay down their arms. To say that force is sometimes necessary is not a call to cynicism — it is a recognition of history, the imperfections of man, and the limits of reason.”
Ps: il motivo per cui vado matto per gli illuministi si condensa nelle ultime tre parole di Obama. Niente che si sia inventato lui, è una cosa che l'umanità ha imparato da Immanuel Kant: mettiamo al centro della nostra visione del mondo e delle nostre vite l'esercizio della ragione, ne facciamo un fondamento della nostra modalità di convivenza, dei nostri procedimenti di conoscenza e di progresso scientifico ma al tempo stesso, esercitandola, riconosciamo che ha dei limiti. Siamo proprio razionali.

martedì 22 maggio 2012

Ma quella musica pop qui, in fin dei conti, cos'è?

È un periodo che ascolto pochissima musica nuova. Immagino ce ne sia un sacco di appassionante e ganza, là fuori, ma io è mesi che ascolto cose che conosco già. Ascolto, riascolto, riscopro e mi incisto per cose vecchie.
C'è un successo ormai datato dei Baustelle, per esempio, cui mi sto appassionando molto. Si tratta di Il corvo Joe. Il testo è una cosa colta d'ispirazione decadentista: c'è il simbolismo, c'è lo sguardo critico sulla borghesia cittadina, c'è la nobilitazione poetica dell'emarginato. Non è male. Ma non è sostanziale: potrebbe pure parlare di fette biscottate, da un certo punto di vista, e funzionare comunque. Anzi, forse funzionerebbe di più. Il motivo per cui la canzone è strepitosa, tuttavia, è molto più legato alla struttura musicale e alla composizione. Ha molto più a che fare con l'andamento alternato fra il trasporto intenso e lo scazzo indolente, con la cura della metrica, con le aperture che accompagnano il ritornello, con il tocco solenne in dissonanza con le immagini da salotto arredato con divani sfondati.